“Palermo è sontuosa e oscena. Palermo è come Nuova Delhi, con le reggie favolose dei maharajà e i corpi agonizzanti dei paria ai margini dei viali. Palermo è come Il Cairo, con la selva dei grattacieli e giardini in mezzo ai quali si insinuano putridi geroglifici di baracche. Palermo è come tutte le capitali di quei popoli che non riuscirono mai ad essere nazioni. A Palermo la corruzione è fisica, tangibile ed estetica: una bellissima donna, sfatta, gonfia di umori guasti, le unghie nere, e però egualmente, arcanamente bella. Palermo è la storia della Sicilia, tutte le viltà e tutti gli eroismi, le disperazioni, i furori, le sconfitte, le ribellioni. Palermo è la Spagna, i Mori, gli Svevi, gli Arabi, i Normanni, gli Angioini, non c’è altro luogo che sia Sicilia come Palermo, eppure Palermo non è amata dai siciliani. Gli occidentali dell’isola si assoggettano perché non possono altrimenti, si riconoscono sudditi ma non vorrebbero mai esserne cittadini. Gli orientali invece dicono addirittura di essere di un’altra razza: quelli sicani e noi invece siculi.” (da I Siciliani, Giuseppe Fava, giugno 1983)

Palermo ha ottenuto il quinto posto nella classifica mondiale delle “Dieci capitali dello street food”. Palermo è lo street food! Per elencarne la varietà ci vorrebbe un libro! Storia di cibi, storia di popoli, storia di una città e del suo comune sentire.
L’origine delle “vastedde ca’ meusa” si fa risalire al Medioevo quando a Palermo era presente un folto gruppo ebraico. Alcuni componenti di questa comunità, fra le varie attività svolte nei mattatoi cittadini, eccellevano nell’arte di squartare e sezionare gli animali. La fede religiosa obbligava gli Ebrei a non percepire denaro per il lavoro di macellazione, così a titolo di ricompensa trattenevano le interiora che fatte bollire rivendevano ai “gentili” (cristiani) come farcitura di pane e formaggio.
Nel 1492, con l’allontanamento della comunità ebraica dai territori sottoposti al dominio spagnolo di Re Ferdinando II d’Aragona “il cattolico”, quest’attività passò presumibilmente ai “caciuttari”, che nel loro chiosco ambulante, oltre a servire il pane inzuppato nello strutto e riempito di formaggio, aggiunsero le interiora bollite e fritte. Nell’ottocento nacquero poi le famose “focaccerie” dove, seduti al tavolo e serviti da eleganti camerieri, si poteva gustare la “vastedda” dopo aver risposto alla semplice domanda :” ‘a vuoli schietta o maritata? ” La prima prevedeva la pagnotta ripiena di milza e altri grassetti appetitosi fatti sfrigolare nello strutto caldissimo, con soltanto un po’ di limone; la seconda aggiungeva della ricotta o caciocavallo a scaglie, attribuendo al formaggio “maritato” l’allegoria del velo da sposa. Ancora oggi il “pani ca’ meusa” si prepara secondo tradizione: forchetta senza i denti centrali per non sbriciolare le fettine di milza; padella inclinata, nella quale in basso frigge lo strutto e in alto stanno le interiora.

PALERMO, ITALY – AUGUST 12: Street food of fish on the night in market of “Vucciria” to the Loggia district on August 12, 2016 in Palermo, Italy. (Photo by Stefano Montesi/Corbis via Getty Images)
“Pensateci bene prima di chiedere una focaccia a una bancarella per strada a Palermo. Molto probabilmente, l’unica cosa familiare in quello che vi ritroverete in mano, sarà una pagnotta al sesamo, che il venditore aprirà nella parte centrale per togliere la mollica, mettendoci poi dentro fettine di milza di vitello e strisce di polmone stufate e poi fatte friggere nello strutto, il tutto sormontato da un po’ di scannaruzzatu (cartilagini prese dalla gola del vitello). Indispensabile è una spruzzata di limone: il succo si insinua piacevolmente nell’unto del sugo di cui è imbevuta la focaccia, creando una sensazione al palato sostanziosa e malleabile al tempo stesso.
Questa focaccia o, volendo essere più precisi, questo pani ca’ meusa (pane con la milza) è il piatto feticcio della venerabile tradizione palermitana del cibo di strada. Alla famosa Antica Focacceria San Francesco offrono un pratico antipasto misto che è un campionario di prelibatezze urbane come le arancine (sferette di riso, piselli e ragù di carne impanate e fritte), gli sfinciuni (piccole pizze quadrate, legegre ma oleose, condite in vario modo, con cipolla, formaggio, origano, olive e così via) e una minifocaccia maritata (cioè pani ca’ meusa “maritato” con la ricotta).
La Sicilia è probabilmente la regione italiana che ha la cucina più caratteristica fra tutte. In un mondo sempre più assuefatto alla cosiddetta dieta mediterranea, la cucina siciliana resta spiazzante e tenacemente insolita.” (Salvatore Lo Leggio)
Lessate della milza e del polmone (meglio di vitella), fateli raffreddare e tagliateli a fettine. Con della pasta da pane preparate delle focaccie, agitatele su una piastra e cucinatele in forno caldissimo sino a quando saranno dorate.
In una casseruola con due cucchiaiate di strutto scaldate le fettine di milza e polmone. Sfornate le focacce, imbottitele con la carne e servitele caldissime spruzzate d’alcune gocce di limone e sale. Una variante è “maritare” (sposare) le pagnotte aggiungendo alla farcitura scaglie di caciocavallo o ricotta, per poi soffriggerle qualche minuto nello strutto sfrigolante.

Le panelle rappresentano uno dei cibi di strada più rinomati di Palermo, e sono la variante fritta della farinata di ceci. Questa sorta di schiacciate di piccole dimensioni testimoniano la storia dei popoli mediterranei. Già gli arabi, dominatori della Sicilia a cavallo tra il Nono e l’Undicesimo secolo, con la farina di ceci mescolata all’acqua ricavavano una sorta d’impasto che, cotto in un tegame per ottenere un composto denso e cremoso, veniva schiacciato e fritto in piccoli pezzi. Il detto siciliano “pari ‘na paniella” (sembri una panella) è riferito ad oggetti che hanno avuto la malasorte di trovarsi schiacciati sotto pesi eccessivi.
Le panelle sono il caratteristico spuntino del palermitano accompagnato spesso dai cazzilli (crocchette di patate). Si possono trovare ovunque, nelle friggitorie di tipo fisso o ambulante, sulle strade di grande traffico, nei quartieri popolari o nel centro storico. Corre voce che fino a qualche anno fa, per accertare la temperatura dell’olio, il panellaro adottasse il sistema di “sputare” nel liquido per verificarne la temperatura di frittura ideale.
In un capace tegame, stemperate farina di ceci e acqua per ottenere una pastella densa. Mettete il recipiente sul fuoco a fiamma bassa, e mescolando con una spatolina di legno, cocete il composto sino a quando avrà una consistenza densa e cremosa.
Versate questa polentina su un piano, livellatela di uno spessore finissimo e lasciatela raffreddare. Ritagliate le panelle nelle forme che preferite (losanghe, rettangoli, mezzelune), per poi passarle a friggere in una padella con abbondante olio d’oliva; dorate da ambo le parti le panelle, scolatele su carta assorbente, e servitele caldissime

“Il commissario si mise in bocca mezza polpetta e con la lingua e con il palato principiò un’analisi scientifica che Jacomuzzi poteva andare ad ammucciarsi. Dunque: pesce, e non c’era dubbio, cipolla, peperoncino, uovo sbattuto, sale, pepe, pangrattato. Ma all’appello mancavano ancora due sapori da cercare sotto il gusto del burro ch’era servito per friggere. Al secondo boccone individuò quello che non aveva scoperto prima: cumino e coriandolo.” (Il ladro di merendine, Andrea Camilleri)
I Cazzilli
Crocchette di patate schiacciate, sempre con l’aggiunta di prezzemolo. Il panino coi cazzilli è un appuntamento obbligatorio per i bagnanti della spiaggia di Mondello, il cui lungomare è costellato di friggitorie ambulanti ricavate razionalizzando al massimo la capacità dei minuscoli “lapini”.
500 g di patate/ Qualche cucchiaio di amido di mais/ Prezzemolo tritato/ Olio di semi per friggere
Bollire le patate, pelarle e schiacciarle con un normalissimo schiacciapatate. Aggiungere sale, pepe, prezzemolo tritato e qualche cucchiaio di amido di mais. Amalgamare l’impasto così ottenuto e formare delle piccole crocchette ovali. Friggere in abbondante olio caldo.

“e’ muoddu comu na sfincia” (è morbido come una sfincia).

“accattativi u sfincionello…” caldo e soffice con un pizzico di origano, la mano svelta e competente lo irriga con un sottile filo d’olio di oliva per l’avventore di turno. “agghia, aliva, nuci, ramurazza, pani, scuorzi”
La sua pasta di pane, lievitata ad arte, gli conferisce morbidezza e altezza, la forma circolare o quadrata, condita prima di essere infornata: sarde salate, cipolla, formaggio e olio, ma il condimento essenziale è la mollica, quest’ultima è quella che conferisce allo sfincione una propria identità anzi è, e ne fa, il piatto tradizionale bagherese, variante questa, che lo differenzia da quello palermitano e dei paesi limitrofi, dove l’ingrediente fondamentale è la salsa di pomodoro.
L’impasto di farina viene lievitato due volte rendendosi più morbido poiché è più ricco d’acqua. Viene poi schiacciato con il palmo della mano e con tocchi leggeri ed esperti gli si fa assumere la forma desiderata. Su questa forma si conficcano le sarde salate a piccoli pezzetti. Il secondo strato è costituito da fette di pecorino fresco o tuma o primosale. Il terzo e ultimo strato consiste nella mollica mista a pecorino grattugiato, cipolla appassita in padella o scalogna cruda finemente tritata a mano, origano e olio nuovo.
La mollica non deve essere pan grattato, perché risulterebbe troppo secca e conterrebbe la crosta non conferendo più allo sfincione quella “bianchezza” che è una sua prerogativa; ma sulla preparazione della mollica esiste una prescrizione particolare: deve essere ottenuta, per sfregamento a mano, dall’interno di grandi pagnotte rafferme, chiamate “vastidduna pi’ sfinciuna” comprate a tale scopo tre o quattro giorni prima. Un’altra cosa essenziale è “l’infornata” che deve essere fatta con il forno a legna.
Per la pasta: 500 gr. di farina 00, 25 gr. di lievito di birra, 250 gr. di acqua, 4 cucchiai di olio,1 cucchiaino di zucchero, pepe, sale.
Per il condimento: 500 gr. di pomodori rossi maturi, 200 gr. di cipolle, 50 gr. di pecorino grattugiato, 100 gr. di primo sale siciliano (in mancanza altro pecorino fresco saporito), 4 sarde salate, 50 gr. di pane grattugiato, origano,olio extravergine di oliva,pepe,sale.
Sciogliete il lievito nell’acqua tiepida assieme a un cucchiaino di zucchero e un pizzico di sale; aggiungete la farina, mescolate bene con le mani e impastate a lungo. Lasciate lievitare in un posto tiepido per un paio d’ore; poi rimettetelo sulla spianatoia e rimpastatelo per 5 minuti; quindi, lasciatelo lievitare per almeno un’altra ora. Affettate sottilmente le cipolle e fatele appassire in due cucchiai di olio. Unite i pomodori, il sale, il pepe e fate cuocere per venti minuti a fuoco dolce aggiungendo poca acqua se occorre. Tagliate il primosale a dadini e tostate il pane grattugiato in una padella con qualche goccia di olio finché non é dorato. Spianate la pasta in una teglia unta con 3 cucchiai di olio di oliva. Con la punta delle dita praticate delle fossette sulla pasta fino a toccare la base della teglia, poi ricoprite con il sugo di pomodoro e cipolla. Distribuite i dadini di primosale e le sarde. Spolverate con origano e ricoprite con il pane grattugiato tostato. Fate riposare il tutto per 15 minuti. Quindi, infornate a 200° in forno preriscaldato per 30 minuti circa. Servite caldo.

NUN SUGNU PUETA
Ignazio Buttitta – Settembre 1954 – Tratto da: “Lu pani si chiama pani”
Non pozzu chiànciri
ca l’occhi mei su sicchi
e lu me cori
comu un balatuni.
La vita m’arriddussi
asciuttu e mazziatu
comu na carrittata di pirciali.
Non sugnu pueta;
odiu lu rusignolu e li cicali,
lu vinticeddu chi accarizza l’erbi
e li fogghi chi cadinu cu l’ali;
amu li furturati,
li venti chi strammíanu li negghi
ed annèttanu l’aria e lu celu.
Non sugnu pueta;
e mancu un pisci greviu
d’acqua duci;
sugnu un pisci mistinu
abituatu a li mari funnuti:
Non sugnu pueta
si puisia significa
la luna a pinnuluni
c’aggiarnia li facci di li ziti;
a mia, la menzaluna,
mi piaci quannu luci
dintra lu biancu di l’occhi a lu voj.
Non sugnu pueta
ma siddu è puisia
affunnari li manu
ntra lu cori di l’omini patuti
pi spremiri lu chiantu e lu scunfortu;
ma siddu è puisia
sciògghiri u chiacciu e nfurcati,
gràpiri l’occhi a l’orbi,
dari la ntisa e surdi
rumpiri catini lazzi e gruppa:
(un mumentu ca scattu!)…
Ma siddu è puisia
chiamari ntra li tani e nta li grutti
cu mancia picca e vilena agghiutti;
chiamari li zappatura
aggubbati supra la terra
chi suca sangu e suduri;
e scippari
du funnu di surfari
la carni cristiana
chi coci nto nfernu:
(un mumentu ca scattu!)…
Ma siddu è puisia
vuliri milli
centumila fazzuletti bianchi
p’asciucari occhi abbuttati di chiantu;
vuliri letti moddi
e cuscina di sita
pi l’ossa sturtigghiati
di cu travagghia;
e vuliri la terra
un tappitu di pampini e di ciuri
p’arrifriscari nta lu sò caminu
li pedi nudi di li puvireddi:
(un mumentu ca scattu!)
Ma siddu è puisia
farisi milli cori
e milli vrazza
pi strinciri poviri matri
inariditi di lu tempu e di lu patiri
senza latti nta li minni
e cu lu bamminu nvrazzu:
quattru ossa stritti
a lu pettu assitatu d’amuri:
(un mumentu ca scattu!)…
datimi na vuci putenti
pirchi mi sentu pueta:
datimi nu stindardu di focu
e mi segunu li schiavi di la terra,
na ciumana di vuci e di canzuni:
li sfarda a l’aria
li sfarda a l’aria
nzuppati di chiantu e di sangu.