« L’abbondanza, la varietà, la delicatezza delle vivande, la splendidezza e la sontuosiotà delle tavole richiedevano una schiera di uomini d’arte, saggi e probi »
Cosî scriveva Vincenzo Corrado a proposito della sua opera “Il Cuoco Galante”. Nato in Puglia nel 1736, morto a Napoli nel 1836, era incaricato di organizzare i pranzi regali di Don Michele Imperiali Principe di Modena e Francavilla presso il palazzo Cellamare di Napoli, alla corte del quale entrò appena adolescente. Lo studio dell’arte culinaria seguì quelli di matematica, di astronomia delle scienze naturali e della filosofia. Insegnava francese e spagnolo ai rampolli delle famiglie aristocratiche napoletane, mentre la sua fama di scrittore culinario cominciava ad espandersi.
Il Principe di Francavilla gli attribuì la mansione di “Capo dei Servizi di Bocca” ed il suo non era un compito facile: alle sue dipendenze lavoravano un maestro di casa, un maestro di cucina ed un maestro di scalco che aveva il compito di acquistare, di cucinare, scarnificare e trinciare ogni tipo di animale, mentre una schiera di cuochi lavorava secondo la propria specializzazione: chi friggeva, chi era addetto alle insalate, chi ai dolci, chi alle bevande e chi allo stoccaggio. Tutti questi erano aiutati da una serie di sguatteri e di serventi che avevano il compito di girare intorno al tavolo per esibire lo spettacolo fantasioso delle portate prima ancora di servirle. Tutta questa organizzazione era coadiuvata da un piccolo esercito di maggiordomi, domestici, volanti e paggi che interveniva non appena il servizio di cucina consegnava le varie portate artisticamente decorate. Vincenzo Corrado, a seconda degli ospiti del Principe, preparava i pranzi o le cene con particolare assortimento di vivande accoppiandole con tanta fantasia e particolari accorgimenti architettonici ed artistici al fine di formare una coreografia sontuosa e raffinata.
Vincenzo non si accontentava di pentole e fornelli; la sua perizia lo faceva scegliere il vasellame giusto per ogni banchetto, i cristalli, le porcellane di servizio e perfino le tende, tutto passava dalla sua approvazione.
“Bisogna adunque che un prudente e sufficiente maestro Cuoco, per quanto dalla lunga esperienza in molto tempo io ho compreso, volendo avere buon principio, miglior mezzo e ottimo fine, e sempre onore della sua opera, faccia come un giudizioso Architetto. Il quale dopo il suo giusto disegno, stabilisce un forte fondamento, e sopra quello dona al mondo utili e meravigliosi edifici; il disegno del Cuoco ha da essere il bello e sicuro ordine, causato dall’esperienze”
Quindi la cucina e la tavola che diventano una costruzione filosofica, uno studio di equilibri diversi, la ricerca dell’associazione tra estetica e gusto.
Vincenzo Corrado scrisse anche il primo libro di cucina vegetariana conosciuto: Del Cibo Pitagorico, ovvero erbaceo, per uso de’ nobili e de’ letterati.
“Il vitto pitagorico consiste in erbe fresche, radiche, fiori, frutta, semi e tutto cio che dalla terra si produce per nostro nutrimento. Viene detto pitagorico, poiche Pitagora, com’e tradizione, di questi prodotti della terra soltanto fece uso”.
Il libro fu edito nel 1781. Lo sforzo di Corrado si riproponeva di riuscire a “nobilitare” anche quei cibi considerati “poveri”, come appunto le verdure e trattarle in modo che fossero confacenti ai gusti delicati dei nobili per i quali si adoperava. Poteva sembrare ardito voler conciliare la spartana idea vegetariana di Pitagora con il lusso delle mense regali. Corrado sapeva bene che per riuscire nel suo intento le verdure dovevano essere “trattate” in modo da risultare appetitose e saporite: “inventar nuovi modi a poter preparare e condire radici ed erbe”. E fu il trionfo di pomodori, ancora poco utilizzati nelle mense, cipolle, patate, uova al tartufo, e del sedano che diventa un piatto a sé:
“La parte piu tenera delli sellari si fa bianchire in acqua ed asciugati si pongono in una cassarola con butiro, sale, pepe, ed erbette trite, facendoli lentamente cuocere; si servono con parmegiano e butirro stagionati al forno”.
Così le verdure, da essere cibo obbligato dei poveri che non potevano permettersi la carne, diventò cibo di ricchi stanchi della sovrabbondanza delle mense. Montanari, «l’appetito gagliardo e l’abbondanza di carne — antichi segni di forza, di potere, di nobiltà — non furono più oggetto di unanime apprezzamento sociale».
Scrivono Alberto Capatti e Massimo Montanari nel “La Cucina Italiana, storia di una cultura“:
Le verdure, le erbe e i fiori dunque, questi ultimi non solo destinati alla completezza estetica del piatto ma come veri e propri ingredienti. Nel capitolo dedicato ai fiori: Dell’erbe, e fiori per condimento, Corrado ci dà alcune indicazione sul loro uso:
“Con i fiori di sambuco mescolati con uova, e cacio se ne fanno ottime frittate. Mescolati con uova, e ricotta se ne fanno frittelle. I fiori uniti alle loro cimette, e vestiti di pastetta, o pure infarinati e dorati si servono in frittura. Si servono ancora per ornamento di carni, e pesci lessi, e d’insalatine”…
E secondo Corrado le melanzane alla parmigiana trovano origine in quel di Napoli.
Molignane alla parmisciana
Piglia chelle belle molignane nere, le lieve la scorza e ne faie felle felle, po le miette ncoppa a lo bancone a scolare, a scolare co lo sale per miezo, co no mortaro ncoppo per pisemo per nce fà scolà chell’acqua amara; doppo le spriemme bone e le farraje fritte, e po l’accungiarraje dint’ a no ruoto a felaro a felaro, co lo caso grattato, vasenecola ntretata, e brodo de stufato o co la sauza de pommodore, e co lo tiesto ncoppa le farraje stufà .”
E avverte: “I petronciani per usarli bisogna pulirli dalla corteccia, e poi darli una lessata per toglierli una certa malignità , che potrebbe nuocere; o pure polverati di sale per estrarre il cattivo umore. Bianchiti li petronciani si possono servire in tutte quelle maniere, che furono esposte parlando delle zucche, pastinache e pomidoro.”
Infatti per la parmigiana aveva già preso in considerazione le zucchine
“Le zucche lunghe devono essere nè troppo grosse, nè piccole. Prima di cuocerle bisogna raderle d’intorno, e tagliarle in sottili fette rotonde; poi spolverate di sale per qualche tempo, acciochè mandino fuori un certo cattivo umore, e si renda la loro carne piechevole da usarla in quelle maniere che si dirà , si spremono fra le mani, o fra due tondi, si infarinano e si friggono nello strutto. Si servono in un piatto, frammezzate di parmegiano, e butirro, coverte con salsa di gialli d’uova e butirro, rassodate nel forno.”
Dei peperoni scriveva:
“Sono i peparoli di rustico e volgar cibo, ma sono però a molti di piacere; particolarmente agli abitanti del vago Sebeto (area napoletana), i quali li mangiono, mentre son verdi, che li friggono, e polverati di sale, o pure cotti sulla brace, e conditi di sale e olio.”
Dei pomodori (tradotto dal napoletano)
“Questi pomodori non solo danno gusto al palato ma a sentimento dei fisici facilitano molto con il loro sugo acido la digestione, particolarmente nella stagione estiva quando per l’eccessivo calore l’uomo ha lo stomaco rilasciato e nauseante. Sono i pomodorini rotondi, di color zafferano ed hanno una pellicola che per toglierla bisogna rotolarli sulla brace”.
Parlava dei datterini e Enzo Coccia ha provato a realizzare una pizza su queste indicazioni:
Pizza Procidana
15-18 pomodorini a grappolo o datterini
80 g di scamorza
1 spicchio d’aglio novello o privato del germoglio
1 pizzico di origano
Qualche foglia di prezzemolo
Qualche foglia di basilico
Olio extra vergine di oliva di ottima qualità
Sale marino
Accendete il forno sulla posizione grill medio. Tagliate i pomodorini a metà. Metteteli su un foglio di carta forno, irrorateli con un filo di olio e cuoceteli per qualche minuto fino ad ottenere una colorazione che possiamo definire “alla brace”. Tagliate la scamorza a listarelle e l’aglio a fettine sottili. Tagliate il prezzemolo ed il basilico. Preriscaldate il forno a 250°C. Irrorate la pasta con un filo di olio e infornate per circa 15 minuti. Successivamente distribuite sulla pizza la scamorza e i pomodorini, cospargete di aglio e origano e infornate per altri 5 minuti: la pizza deve essere croccante e dorata, la scamorza filante e i pomodorini scottati. Dopo aver sfornato la pizza, distribuitevi il prezzemolo e il basilico e completate con un filo di olio. Prima di iniziare non dimenticate di preparare un impasto ben lievitato.
per la pasta:
400 grammi di farina
120 grammi di burro
70 gr di strutto
150 grammi di zucchero
2 tuorli
1 uovo intero piccolo
1 CC di Marsala
1 cucchiaio di cannella
per il ripieno:
600 grammi di grano bagnato
la buccia di un’arancia
1 limone
un cucchiaio di zucchero
un cucchiaio di essenza di vaniglia (o 1/2 bacca)
70 ml di crema di latte
250 grammi di zucchero
4 tuorli
essenza di fior d’aranci
un pizzico di cannella
60 grammi di cedro candito
Preparate un “brodo” mettendo a bollire 1 litro di acqua con una stecca di cannella, la buccia d’arancia e di limone insieme ad un cucchiaio di zucchero.
Fate sobbollire per 20 minuti. Mettete il grano in una casseruola e coprite col brodo. Fate cuocere il grano finchè sarà evaporato il brodo, così che tutto risulti denso e cremoso. Lasciate raffreddare completamente, poi unite lo zucchero e lavorate per 6-7 minuti. Incorporate i tuorli uno alla volta, l’essenza di fior d’arancia, la cannella e i canditi e infine unite la panna. Stendete 2/3 della pasta frolla e rivestite una teglia di 24 centimetri precedentemente imburrato.
Versate il composto e decorate con la pasta restante. Cuocete in forno dolce per circa un’ora . Lasciate raffreddare e spolverate con zucchero a velo.
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