“Per me l’unica gente possibile sono i pazzi, quelli che sono pazzi di vita, pazzi per parlare, pazzi per essere salvati, vogliosi di ogni cosa allo stesso tempo,quelli che mai sbadigliano o dicono un luogo comune, ma bruciano, bruciano, bruciano, come favolosi fuochi artificiali color giallo che esplodono come ragni attraverso le stelle e nel mezzo si vede la luce azzurra dello scoppio centrale e tutti fanno Oooohhh!” (Jack Kerouac, On the road)
P.Picasso, La Cucina, 1948
La vera storia del
Risotto alla Milanese
Era il Settembre del 1574. Da quasi duecento anni, ormai, erano in corso i lavori per la fabbrica del Duomo, alle cui spalle si era formata una vera e propria città di baracche e porticati in cui alloggiavano marmisti, falegnami, scultori, carpentieri venuti da ogni parte d’Europa. In una specie di cascina di quella Babele multilingue, viveva una piccola comunità di belgi: Valerio di Fiandra, maestro vetraio, incaricato di portare a termine alcune vetrate con gli episodi della vita di Sant’Elena, s’era infatti portato a Milano i più bravi dei suoi discepoli.
Uno, in particolare, spiccava tra gli altri per la sua straordinaria abilità nel dosare i colori, ottenendo effetti a dir poco sorprendenti. Il suo segreto? Un pizzico di zafferano, aggiunto con maestria all’impasto già pronto. E proprio per questa sua abitudine, era stato soprannominato “Zafferano”. Il suo nome vero quasi non lo ricordava nessuno, e s’e’ perso nei secoli. Maestro Valerio, naturalmente, non era all’oscuro della mania zafferanesca del suo allievo più promettente, ma faceva sempre finta di nulla, limitandosi a canzonarlo ed a ripetergli che, andando avanti così avrebbe finito per infilare lo zafferano anche nel risotto.
Fu così che, dopo tanti anni di canzonature, il giovane decise di giocare un tiro mancino al maestro: il giorno della Madonna si sarebbe sposata la figlia di Valerio, e quale migliore occasione per spruzzare davvero un pò di polverina gialla nel risotto per il pranzo di nozze? Non ci volle molto a corrompere il cuoco… Ed immaginate lo stupore di tutti i commensali quando a tavola comparve quella stranissima piramide di risotto color zafferano! Qualcuno si fece coraggio ed assaggiò. E poi un altro, e poi un altro ancora. In un batter d’occhio, dell’enorme montagna di risotto giallo non rimase neanche un chicco.
Il tiro mancino di “Zafferano” era decisamente andato male. In compenso, però era nato il risotto alla milanese.
Da Roberto Fontana – Trattoria Casa Fontana
Racconti, leggende, si dice.., finalmente cercheremo di risalire alle origini della ricetta basandoci su documenti storici.
La caratteristica principale è il colore giallo, conferitogli dallo zafferano. I piatti multicolori erano prerogativa della cucina araba ed europea medioevale. Era il secolo dei piatti contraffatti o mascherati, destinati a stupire i convitati; l’oro e il suo succedaneo , il tuorlo d’uovo, erano simbolo di nobiltà, riservati ad una stretta élite.
Nel ‘300 il riso veniva coltivato estensivamente nel Napoletano. Da qui, grazie agli stretti rapporti politici e familiari che legavano gli Aragonesi ai Visconti prima, ed agli Sforza poi, la sua coltivazione risale verso il nord Italia, per affermarsi, grazie ai terreni acquitrinosi, nella pianura padana ed in particolare nel Vercellese. Un secolo più tardi lo Scappi parlerà di “riso di Salerno o di Milano” nella ricetta di “Minestra di Riso alla Damaschina” come per ricordare l’origine di questo alimento, similmente allo zucchero che per secoli sarà definito “di Cipro” o “di Madera”.
I primi ricettari trecenteschi propongono piatti nei quali il riso svolge un ruolo fondamentale. Il Biancomangiare dell’Anonimo Toscano prevede riso o in alternativa la sua farina, cotto con latte, zucchero, spezie e colorato con zafferano e tuorli d’uova. Il Biancomangiare di origine Catalana utilizzava invece le mandorle in aggiunta alla farina di riso, le spezie, lo zucchero, l’acqua di rose, ma non lo zafferano, che sembrerebbe più usanza italiana che arabo/spagnola.
Con Bartolomeo Scappi nella metà del ‘500 si parla per la prima volta di “Vivanda di riso alla Lombarda”:
“Riso bollito e composto a strati con cacio, uova, zucchero, cannella, cervellata e petti di cappone. Il colore giallo è dato dalla presenza della cervellata, tipico insaccato milanese, colorato ed insaporito dallo zafferano. Similmente la “Minestra di Riso e Farro prevede riso cotto nel brodo, condito con cervellate gialle e cotto che sarà in questo modo, si potrà incorporare con ove sbattute, cascio grattato, pepe, cannella e zafferano”.
Foto da:
Come si può notare il termine di risotto risulta ancora del tutto sconosciuto e l’attuale tecnica di cuocere lentamente il riso aggiungendo progressivamente il brodo, ancora ignota, perché ogni ricetta inizia invariabilmente con la preparazione del riso lessato. Nulla di nuovo nei numerosi ricettari italiani seicenteschi. Nel ricettario di Massialot (Parigi, 1691) tradotto in italiano nel 1724, si consiglia di cuocere il riso nel brodo per guarnire capponi o galline e condirlo con cannella e sugo di castrato o limone. E’ necessario attendere la fine del 1700 perché il riso alla milanese, così come oggi è conosciuto, prenda forma.
La prima traccia ci viene dall’anonimo autore della “Oniatologia” (scienza del cibo), che titola una sua ricetta “Per far zuppa di riso alla Milanese”, dove il riso, lessato in acqua salata, alla quale si aggiunge un buon pezzo di burro quando bolle, è condito con cannella, parmigiano grattato e sei tuorli d’uova, per fargli acquisire un bel colore giallo.
Ancora di riso condito con parmigiano e cervellato parlerà il napoletano Corrado nel suo “cuoco Galante”. Il secondo suggerimento ci viene da Antonio Nebbia che, nel “Cuoco Maceratese”, con metodo rivoluzionario, soffrigge il riso lasciato a mollo per due ore nell’acqua fredda, quindi non bollito, in poco burro e lo bagna con del coulis di cavolo. Più originale e più moderna la tecnica de “L’arte di far la cucina di buon gusto“, dove il riso viene “soffritto in due once di burro ed un pizzico di cipolla tritata, prima di venir bagnato con un bicchiere di latte ed insaporito con delle spezie.”
La ricetta definitiva, completa nella sua formulazione finale, nasce all’inizio dell’800 e non a caso in quel “Cuoco Moderno” di un misterioso L.O.G. stampato a Milano nel 1809, testo di estremo interesse per la storia della gastronomia milanese ma dai più ingiustamente ignorato.
La sua ricetta:
“Riso Giallo in padella”.
Cuocere il riso, saltato precedentemente in un soffritto di burro, cervellato, midolla, cipolla, aggiungendo progressivamente brodo caldo nel quale sia stato stemperato dello zafferano.
Finalmente la ricetta di Felice Luraschi, celebre cuoco milanese che nel 1829 fa stampare il suo “Nuovo cuoco milanese economico”. Qui l’antico riso giallo diventa Risotto alla Milanese giallo, completo di grasso e midollo di bue, zafferano e noce moscata, bagnato con del brodo, insaporito con quella cervellata di medioevale memoria e con del formaggio grattugiato.
Risotto alla Milanese di Felice Luraschi.
Tagliate colla mezzaluna una cipolla, unite della grassa e midolla di manzo, poco butirro fate tutto tostare e passatelo al sedaccio, mettetevi quella quantità di riso che è necessario, poco zafferano, poca noce moscata e fatelo cuocere in buon brodo rimettendolo di man in mano; a mezza cottura mettetevi un mezzo cervellato, lasciatelo cuocere, mettete del formaggio grattugiato e servitelo.
Di aggiungere vino non se parla ancora.
Ai primi del ‘900, l’Artusi fornisce due ricette del Risotto alla Milanese, la prima senza vino, la seconda con vino bianco.
Ma ecco il motivo:
nella prima ricetta non menziona né il midollo di bue né altri grassi; nella seconda, che lui definisce “più greve allo stomaco ma più saporita”, ecco comparire il midollo e vino bianco. Aveva infatti compreso che questo grasso rendeva il piatto appiccicoso al palato, quindi occorreva un tocco di acidità per sgrassare la bocca e dare nerbo al risotto.
Ai giorni nostri Gualtiero Marchesi, Maestro della cucina creativa, perfeziona la ricetta consigliando di procedere così:
Tostare il riso in poco burro, iniziare la cottura col brodo, poi aggiungere lo zafferano; frattanto fare sudare a parte la cipolla in pochissimo burro e vino bianco, aggiungere burro fresco ben freddo per ottenere una crema omogenea. Mantecare il Risotto, con questo burro, a fine cottura. Assicurerà al piatto un supporto di acidità e aroma che esalterà i sapori ed il profumo!!
Ricetta del risotto alla milanese in rima, scritta da Giuseppe Fontana
EL RISOTT A LA MILANESA
“Gina, Gina, stavòlta che el risòtt
voeui cural mi. Prepara bella netta
la padella, che sem in sett o vòtt.
El broeud te ghe l’ee bon? Si’? De manzetta?
Famel on poo saggià. Bon, bon, va la’,
sent che odorin? El fa resuscità.
El ris l’e’ de vialon rivaa su jer?
L’e’ mondaa? Torna a dagh ona passada.
Sù, sù, mett in padella el tò butter
e on tochell de scigola ben tridada.
Mett a foeugh, fà tostà movend sul fond
col mestolin e tirel d’on bell biond.
Dent el ris. Ruga, bagnel cont el vin
bianch, magher (mezz biccer). Dent el zaffran.
Ruga. Fagh sugà el vin. Sent che odorin!
Sugaa? Gio’ el broeud da man a man.
Boffa sòtt che’l dev buj a la piu’ bella
da vedell a sparà in de la padella.
Bagnel del tutt e rangiel giust de saa.
Lassel coeus. Brava. Gratta gio’ el granon.
Oi, oi sòtt, sòtta foeugh chel sè incantaa!
Gina, che risottin, che odor de bon’
Ten rigaa veh! Adasi e deppertutt.
Varda, l’e’ quasi all’onda. On trii minut.
Giò che l’e’ pront. L’e’ moll? Fa nient, el ven.
Dent el grana abbondant e on bell tocchel
de butter peu mantecchel ben, ben, ben,
menand su’ svelt ch’l ven bon e bell.
Quest chi si’, l’e’ on risott che var la spesa,
on risott pròpi faa a la milaanesa!
Còtt al punt, mantecaa a la perfezion,
bell, mostos, el te fà resuscità
anca un mòrt che creppaa d’indigestion.
Tirel giò e mett in tavola che in la’
con tant d’oeucc e sopiren duardand chi.
Sèrvel, che vegni subit anca mi”
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