Il ragù e i Maccheroni alla siciliana, Sabato, Domenica e Lunedí

…Giulianella: L’insofferenza di mammà nei tuoi confronti sai da cosa ha avuto origine? Adesso te lo dico, cosí ti metti l’anima in pace. Quattro mesi fa, è una cosa di quattro mesi, quando tu e mammà andaste a mangiare in casa di Roberto, ti ricordi?

Peppino: Sí mi ricordo, ma non successe niente.

Giulianella- Maria Carolina che pranzo vi fece?

Peppino- E chi si ricorda?

Giulianella- E te lo dico io perché lo seppi da mammà. Vi fece i maccheroni alla siciliana, conditi col pomodoro fresco e le melanzane fritte.

Peppino- Ah, sí, Maria Carolina li cucina alla perfezione… E li fece stufare al punto giusto. Io me ne mangiai due piatti.

Giulianella- E a tavola facesti un sacco di complimenti a Maria Carolina, che non avevi mai mangiato dei maccheroni alla siciliana cosí buoni e che un giorno li doveva venire a cucinare qua, per tutti quanti noi…

Peppino- Sí mi ricordo

Giulianella- E dici che quel giorno non successe niente?

Peppino- Perché?

Giulianella- Mammà tornó come una diavola quella sera. Si prese una collera e tale papà, io non ho mai visto una persona piangere come piangeva mammà quella sera. Ti giuro che mi vidi perduta. Diceva: “Come, allora io mi devo fare insegnare come si fanno i maccheroni alla siciliana da Maria Carolina?”…

Napoli, anni ’30; Rosa, una bellissima Sofia Loren nei suoi 54 anni, e Peppino Priore, Luca De Filippo che a tratti assume la maschera recitativa del padre, sono una coppia che vive, dopo trent’anni di matrimonio, un momento di crisi: Peppino si sente trascurato, avverte lontana la moglie. La gelosia gli avvelena la vita, teme un tradimento, finché a un pranzo domenicale, davanti al famoso ragù dei giorni di festa, vuota il sacco davanti a figli e invitati, tra i quali anche il presunto rivale.

Costernazione generale, Rosa, per la vergogna e la rabbia, sviene. Giulianella, la figlia della coppia, svela al padre il perché della freddezza della madre “da quattro mesi”: era Rosa a sentirsi trascurata dal marito, a non vedere riconosciuto il suo lavoro quotidiano, stufa che i suoi sforzi per il governo della casa fossero accolti come dovuti e la goccia che aveva fatto traboccare il vaso erano stati i complimenti esagerati rivolti da Peppino alla nuora, autrice del famoso “ruoto di maccheroni alla siciliana”.

Ci sarà il lieto fine: in una Napoli scossa da episodi di bradisismo i coniugi Priore si chiuderanno in camera da letto per rinverdire il loro amore.

Il film è del ’90, per la regia di Lina Wertmuller ed è l’ennesima rivisitazione della commedia omonima che Eduardo scrisse nel ’59. Forse volendo fotografare una delle ultime immagini della famiglia tradizionale che gli italiani avevano conosciuto e che si disintegrerà nei cambiamenti epocali che avverranno di lí a pochi anni.

Una delle scene più famose del film è la lite, che rischia di degenerare in rissa, dal macellaio dove Rosa si era recata per comprare la carne necessaria a cucinare il ragù della domenica, la cui esecuzione non trovava l’accordo tra le donne presenti: “E’ come dire che dobbiamo venire tutti ad Afragola per imparare certe raffinatezze…”

Che cosa mette Rosa nel ragù?

Girello kg 1,500

Annecchia kg2

Tracchiolelle kg1

Nervetti 2

Corazza

Prosciutto g30

Pancetta g30

Lardo tritato g50

Strutto g.100

Olio g50

Cipolla g200

Concentrato di pomodoro

Passata di pomodoro g400

Aglio

Sale

Pepe

Prezzemolo

Vino bianco

Da Napoli Time la ricetta:

Lardellate le carni (girello e annecchia) con prosciutto, prezzemolo, pancetta, pepe, aglio. Tritate cipolle, lardo, aglio, pancetta ponendoli in una casseruola di rame con strutto, olio, sale, pepe e le carni (tutte)che andranno ben sigillate. Coprite e lasciate andare fin quando la cipolla imbiondisce quindi sfumare col vino bianco. Aggiungere il concentrato di pomodoro, la passata e lasciar cuocere a fuoco bassissimo per tutto il giorno girando di tanto in tanto. ‘O rraù adda pippià chianu chianu. Deve essere insomma confessato e comunicato.

Non di certo un piatto leggero. Ma cos’è l’annecchia? Da Nuvole Napoletane:

“Termine antico quello in epigrafe che à resistito, nell’uso comune partenopeo parecchi secoli e che ancora si poteva udire, negli anni ’50 del 1900, tra il popolo. A mano a mano se n’è perso poi l’uso ed oggi solo qualche ottuaggenario lo usa ancora allorché si reca in macelleria per acquistare delle tenere fettine appunto d’annecchia che è la carne della manzetta giovane, della giovenca che è stata macellata quando non ha ancora superato un anno di vita.
Per traslato e tenendo presente la sua giovane età il termine è usato pure per indicare una giovane ragazza piuttosto bassa ed in carne.
L’etimologia è palesamente latina e viene dal termine annicula per il tramite di una forma regionale anniclja con l’attestato significato: di un anno.”

E le tracchiulelle? Niente di misterioso, sono le costine di maiale. E la corazza è un taglio di seconda scelta, il muscolo, conosciuto anche come scaramello, nel resto dell’Italia.

Appurata la preparazione del ragù napoletano, l’altro piatto di spicco del film sono i maccheroni alla siciliana. Intanto è bene chiarire che nel nostro Sud tutti i piatti a base di melanzane diventano “alla siciliana”. Ma la prima domanda che viene da porsi è: che cosa si intende con “maccheroni”? Di che pasta si tratta? Ovviamente si tratta di una pasta di grano duro, secca, ma le sicurezze si fermano qui perché poi ogni Regione ne dà la sua interpretazione. In Un americano a Roma, di Steno, Alberto Sordi pronuncia il famoso “maccarone m’hai provocato e mo’ me te magno” ingozzandosi di spaghetti o forse più plausibilmente di bucatini. Perché il maccherone deve essere tubolare, lungo o corto che sia. Quindi dai bucatini, ai rigatoni ma soprattutto agli ziti spezzati. La storia del maccherone è affascinante. Da Taccuini Gastrosofici:

“Nel ‘700 a Napoli, grazie alla comparsa di macchine per la fabbricazione su larga scala, i maccheroni divennero alla portata anche del popolo. Agli angoli delle strade trovarono posto le grosse caldaie dei maccheronari, affiancate dal piatto di terraglia con la piramide bianca di formaggio grattugiato, solcata da righe di pepe. I maccheroni si affermarono prima come street food e poi come cibo gourmet.
Un osservatore francese scriveva “quando un lazzarone ha guadagnato le quattro o cinque monete che gli bastano per comprarsi i maccheroni, non si preoccupa più del domani e smette di lavorare”. L’immagine dello spiantato che, con la testa buttata all’indietro, si faceva scendere in bocca una manciata di pasta fece il giro d’Europa. Assieme a racconti come quello citato c’è anche anche un vero e proprio testimonial d’eccezione che elevò i maccheroni a cibo di corte: il re Ferdinando I di Borbone. Un ospite irlandese della corte borbonica che aveva assistito a un pasto regale, lo descriverà così: “Li afferrava tra le dita, torcendoli e stiracchiandoli, e poi infilandoseli voracemente in bocca, disdegnando con la massima magnanimità l’uso di coltelli, forchette o cucchiai, o qualsiasi altro strumento eccettuati quelli che la natura gli ha gentilmente messo a disposizione”.

Ma insomma, questi maccheroni alla siciliana? Dubito si tratti di una specie di pasta alla Norma, perché la Loren/Rosa nel film parla di “ruoto”, la teglia da forno. Forse si potrebbero paragonare più verosimilmente alla pasta ‘ncasciata di Montalbano, ma più leggera, a base di salsa di pomodoro fresco, melanzane fritte e mozzarella.

La foto da Giallo Zafferano

Quindi, melanzane tagliate a cubetti e fritte, salsa di pomodoro fresco, mozzarella a cubetti, metà mescolata alla pasta e l’altra metà a ricoprirla, insieme a una parte delle melanzane fritte e tanto parmigiano, mescolato alla pasta e sopra. Poi in forno a 200°, finché non si forma la crosticina, quindi una mezz’oretta.

Diceva Eduardo:

« In Sabato, domenica e lunedì c’è un fermento contestatario, un’anticipazione dell’avvento del divorzio in Italia, una apparente fusione di finti rapporti cordiali in una famiglia in cui convivono i rappresentanti di tre generazioni: nonni, figli, nipoti, ma dietro la facciata bonaria si avverte un ammonimento a tutti i coniugi che non vanno d’accordo: spiegatevi, chiaritevi i vostri dubbi, i vostri tormenti. Alla fine della commedia non c’è chi non comprenda che soltanto l’amore può tenere insieme due esseri; non certo il matrimonio, e nemmeno i figli»

La foto di Libero Pensiero

La Cacio e Pepe, ‘na storia burina

“Doppo che ho rinnegato Pasta e pane, so’ dieci giorni che nun calo, eppure
resisto, soffro e seguito le cure… me pare un anno e so’ du’ settimane. Nemmanco dormo più, le notti sane, pe’ damme er conciabbocca a le torture, le passo a immaginà le svojature co’ la lingua de fòra come un cane.

Ma vale poi la pena de soffrì lontano da ‘na tavola e ‘na sedia
pensanno che se deve da morì? Nun è pe’ fà er fanatico romano;
però de fronte a ‘sto campà d’inedia, mejo morì co’ la forchetta in mano!”

Aldo Fabrizi, La Dieta

La pasta Cacio e Pepe è traditora. Sembra una sciocchezza, un piatto che più facile non si potrebbe immaginare e invece saperla fare bene è un’arte. Se la preparavano i pastori, durante la transumanza e per forza di cose non potevano portarsi dietro né grande attrezzatura, né troppi ingredienti. La cacio e pepe è fatta di pecorino romano e pepe nero.

La pasta più adatta è il tonnarello, che in Abruzzo chiamano spaghetto alla chitarra: spaghetto quadrato, fatto di semola di grano duro e sale.

La cacio e pepe è traditora perché se non si fa in modo di creare quella cremina che è la sua caratteristica il risultato sarà un sugo secco, impepato e senza nessuna attrattiva. Bisogna creare la cremina, come? Per prima cosa l’acqua nella quale far bollire la pasta deve essere poca, in modo da poter trattenere più amido possibile. Mentre la pasta cuoce si preleva una piccola quantità dell’acqua di cottura e ci si scioglie il pecorino romano grattugiato: per mezzo chilo di pasta ci vogliono tre etti di pecorino e mezzo cucchiaino di pepe per ciascun commensale.

Quindi, nella zuppiera di servizio mettiamo pecorino e pepe, sciolti con poca acqua di cottura. A tempo debito versiamo la pasta che dobbiamo scolare con una paletta forata, perché l’acqua di cottura ci servirà ancora. Appena calata la pasta aggiungiamo velocemente un mestolo di acqua di cottura e mescoliamo, servendo subito, che altrimenti il formaggio si raffredda e diventa duro. Una ultima spolverata di pepe sul piatto già pronto. Basta, non serve altro, eppure che bontà!

(La foto è di Visitare Roma)

La sopa barbeta

Nel 1176 Valdo, (detto poi Pietro Valdo), riformatore religioso, (n. 1140 ca.-m. 1217) ricco mercante a Lione, cedette i propri beni e iniziò a predicare il ritorno alla povertà evangelica, diffondendo il Vangelo nella traduzione in volgare e dando vita al movimento dei Poveri di Lione. Studiando i Testi Sacri la comunità sollevò dubbi circa l’interpretazione che la Chiesa di Roma dava degli stessi. Furono immediatamente accusati di eresia. Espulso da Lione il fondatore, dopo la condanna da parte del sinodo di Verona (1184), i  seguaci di Valdo si dispersero in Provenza, Piemonte, Lombardia, Fiandre, Germania, Spagna, Inghilterra. Nelle valli intorno a Pinerolo, in Piemonte, la nuova dottrina protestante trovò ampi consensi e molti Comuni della zona aderirono alla Riforma protestante del 1532.

eresia-370x290 (1)

Nel 1561 la Chiesa di Roma si adopera per distruggere le comunità valdesi in Calabria, utilizzando contingenti spagnoli e l’onda repressiva non poteva trascurare quella che era diventata una delle “roccaforti” valdesi: le Valli pinerolesi. Nelle Valli i valdesi si accordarono con il duca Emanuele Filiberto di Savoia e firmarono il Trattato di Cavour. La popolazione valdese fu costretta allora entro confini rigorosi, nei quali furono liberi di esercitare il proprio culto, ma non durò  a lungo. Nel 1655 il massacro della popolazione valdese sarà ricordato come “Le Pasque piemontesi”. Il marchese di Pianezza occupò le Valli massacrando quasi duemila valdesi che guidati dal contadino Giosuè Janavel di Rorà opposero un’eroica resistenza. Le fonti storiche parlano di circa 1700 persone, di ambo i sessi, uccise. Le comunità valdesi europee, inorridite da tale massacro, si adoperarono diplomaticamente per raggiungere quella che è nota come Pace di Pinerolo: il duca Carlo Emanuele II di Savoia autorizzò la libertà del culto valdese all’interno del territorio assegnato, vero e proprio ghetto, ed esentò i valdesi dal pagamento delle tasse per cinque anni.

Trent’anni dopo però Vittorio Amedeo II, su pressione del re di Francia Luigi XIV, vietava in modo definitivo il culto protestante; le truppe franco-piemontesi attaccarono la resistenza valdese e fu un nuovo massacro: 3000 morti e circa 9000 furono gli arrestati. Chi accettò di abiurare ebbe salva la vita; gli altri furono costretti all’esilio in Svizzera e in Germania.

AnnaCharboniereTortured (1)

Il desiderio di ritorno dei valdesi piemontesi non si esaurì mai e nell’agosto del 1689 riuscirono nel loro intento con quella che ancora oggi viene chiamata la Gleurieuse Rentrée, il Ritorno Glorioso: più di novecento tra valdesi e ugonotti, guidati dal pastore Enrico Arnaud, si mossero dalla Svizzera e in quindici giorni, superando le Alpi, lottando contro gli eserciti di Piemonte e Francia e contro l’ostilità di alcune popolazioni locali, arrivarono a Bobbio Pellice, dopo aver affrontato un sanguinoso scontro nella Val di Susa. Non era ancora finita l’odissea dei Valdesi: nel Settecento Vittorio Amedeo II scatenò una nuova repressione e solo nel 1848 Carlo Alberto accettò di sottoscrivere le cosiddette “Lettere patenti”: i valdesi poterono finalmente ottenere diritti politici e civili ponendo fine a secoli di discriminazioni.

Durante gli anni dellla repressione dalle valli piemontesi della Val Pellice partivano i pastori predicatori, i barbèt, appellativo che letteralmente significa zio nella parlata locale e che con il tempo andò ad indicare una persona alla quale tributare rispetto e per estensione così furono chiamati i Valdesi delle valli piemontesi. I barbèt, in assoluta clandestinità, viaggiavano per tutta Italia cercando i resti della Comunità e mantenendo i contatti tra gi esiliati, riuscendo in questo modo a salvare tradizione religiosa e spirito di comunione.

TEASER-VALLI-VALDESI

La cucina praticata in condizioni climatiche dure e in clandestinità risentiva della povertà degli ingredienti disponibili: maiale, scarti del formaggio, bacche ed erbe spontanee, pane raffermo. Dice lo chef Walter Eynard: “Noi siamo il popolo con la valigia. La nostra è una cucina di povertà: nel nostro ‘esilio alpino’ mangiavamo tutto quello che si muoveva, dalle rane alle lumache, sfruttando erbe e bacche”. Nasce così la Supa Barbeta, una minestra riservata ai giorni di festa perché utilizza il brodo di carne, formaggio e spezie.

Ecco la ricetta, da La montagna insegna. Saperi e sapori delle vallate alpine. A cura di Marcella Filippa. Daniela Piazza Editore. Torino, 2009:

• 500 gr di grissini o pane raffermo,
• 300 gr di toma fresca,
• 100 gr di burro,
• 2 litri di brodo di carne,
• 2 foglie di cavolo verza,
• spezie miste: chiodi di garofano, noce moscata, cannella.

Ungere di burro il fondo di un tegame di terracotta, o meglio ancora di una “basina” di rame, e ricoprirlo con le foglie di cavolo; sistemarvi sopra uno strato di grissini e di pane raffermo a pezzetti, coprire con un po’ di toma fresca a dadini, qualche fiocco di burro e insaporire con un pizzico di spezie in polvere. Ricoprire con un altro strato di grissini e pane, uno di formaggio, fiocchetti di burro e spezie fino a esaurimento degli ingredienti.
Bagnare con il brodo e cuocere a calore moderato per circa due ore senza mai rimestare. Servire molto calda con burro spumeggiante insaporito da qualche chiodo di garofano.

La-Supa-Barbetta-730x548

Il cristiano è un uomo che canta, la cristiana è una donna che canta. (Pastore valdese Paolo Ricca)

 

Torcetti

“…Non vuole morire, non langue il giorno. S’accende più ancora
di porpora: come un’aurora stigmatizzata di sangue;

si spenge infine, ma lento. I monti s’abbrunano in coro:
il Sole si sveste dell’oro, la Luna si veste d’argento…”

maxresdefault

Scriveva così di Agliè, nel Canavese, Guido Gozzano, nel suo “L’amica di nonna Speranza”. Scriveva durante la sua permanenza estiva alla Villa il Meleto, dono ricevuto dal padre di Gozzano, Fausto, in occasione delle sue nozze con la figlia del senatore Massimo Mautino. E ad Agliè nacquero i torcetti, o torchietti come erano chiamati all’inizio, o torcét in piemontese: deliziosi biscottini che chiamare “grissini dolci” non rende l’idea della loro bontà.

Giovanni Vialardi, cuoco della Real Casa Savoia, li cita nel suo Trattato di Cucina e Pasticceria Moderna del 1854, dandone due versioni: una lievitata e una senza lievito.

Ma la ricetta dei torcetti così come li gustiamo oggi si deve a Francesco Pana, che negli anni ’20 mise insieme gli scarti dell’impasto dei grissini e ne fece piccoli dolcetti ovali per la principessa Isabella Bona di Baviera di Savoia Genova. In cambio ne ebbe il privilegio di poter riprodurre lo stemma principesco e divenire fornitore ufficiale della Casa reale.

 

Gli ingredienti sono quelli di base: farina, zucchero, acqua, burro, lievito e sale. I fornai che li producono continuano ad essere gelosissimi delle loro ricette ma quello che non si peritano a dire è che i torcetti devono essere impastati a mano, che non può esistere un buon torcetto fabbricato in maniera industriale.

Tra le tante ricette, quella dei torcetti biellesi da: Lorenzo Vinci 

500 g di farina
200 g di burro
150 g di zucchero
5 g di lievito di birra
250 ml di acqua
Sale q.b.

Mettere il lievito di birra in due cucchiai di acqua tiepida e lasciare sciogliere;
Disporre la farina a fontana e aggiungere un pizzico di sale e due cucchiai di zucchero;
Nel centro aggiungere il lievito e 250 ml di acqua;
Impastare il tutto fino ad ottenere un impasto liscio e omogeneo;
Fare lievitare per circa 1 ora;
Lavorare il burro fino a renderlo morbido;
Impastare il burro con il composto lievitato;
Lavorare brevemente l’impasto e formare dei bastoncini del diametro di circa un centimetro e lunghi una decina di centimetri;
Passare i bastoncini nello zucchero e accavallare le punte schiacciandole in modo da dare loro la forma a goccia;
Disporre i torcetti su una teglia con carta da forno e infornare a 200° per circa un quarto d’ora.

                                                     Per cunose ún a bsogna mangeje pí d’ na volta ansema

                                    Per conoscere qualcuno bisogna stare in tavola con lui più di una volta

Partenope, Ulisse e Napoli: la pastiera

«Così cantava Partenope, che provava un dolore dolce
La sua voce era una freccia che colpì il mio cuore

(Johann Gottfried Herder, Parthenope, 1796.)

D.G.U._(1831)_Vol._IV.2_Sirena_Partenope_di_Napoli

Cantava Partenope, la vergine. Cantava per confondere Ulisse, ma non riuscì nel suo intento seduttivo: Odisseo, il “ricco di astuzie”, si fa legare dai compagni all’albero maestro e pone tappi di cera nelle orecchie di questi ultimi che non lo sentono supplicarli di liberarlo e il canto di Partenope fu vano.

Tu arriverai, prima, dalle Sirene, che tutti
gli uomini incantano, chi arriva da loro.
A colui che ignaro s’accosta e ascolta la voce
delle Sirene, mai più la moglie e i figli bambini
gli sono vicini, felici che a casa è tornato,
ma le Sirene lo incantano con limpido canto,
adagiate sul prato: intorno è un mucchio di ossa
di uomini putridi, con la pelle che raggrinza ” (Odissea, XII, 39-46)

La Sirena Partenope, figlia di Tersicore, la Musa della danza o, in altre fonti, nata dalle gocce di sangue di Acheloo, dio delle acque, quando si batté con Ercole e da questo fu ferito e vinto, per il dolore e il dispetto di non essere riuscita a conquistare Ulisse si getta dall’alto di una roccia e il suo corpo è trasportato dal mare fino a Castel dell’Ovo; dove si dissolve lasciando il posto alla città di Napoli. Dalle greche Rodi e Creta il mito delle sirene si trasferì così nella Magna Grecia e Napoli, città di suoni e canti, ne fu culla.

 

 

E la la pastiera? Per ringraziare le Sirene del loro canto melodioso fu istituito un culto rimasto misterioso, durante il quale alle cantatrici divine erano dedicate sette offerte: la farina, la ricotta, le uova, il grano cotto nel latte, i fiori d’arancio; le spezie, e lo zucchero. Con questi speciali ingredienti le Sirene fabbricarono un dolce: la pastiera appunto, dal sapore soave. Grano, o farro, misto a ricotta facevano già parte dei dolci offerti in occasione delle feste nuziali Romane e il latte e miele, dai quali l’uso di  ricotta e zucchero, erano utilizzati nelle feste pasquali. Oppure, un’altra leggenda dice che per ingraziarsi il Mare e fare sì che risparmiasse i loro mariti, le mogli dei pescatori portassero sulla spiaggia offerte di ricotta, frutta candita, grano, uova e fiori d’arancio. Le onde del mare mischiarono gli ingredienti dando così origine alla Pastiera.

Meno poetica ma forse più verosimile la leggenda che indica nelle suore del monastero di San Gregorio Armeno le ideatrici del dolce, nel XVI° secolo. Quando le suore aprivano la porta del convento per consegnare in dono ai servitori della nobiltà partenopea le loro torte un profumo soave si spandeva nei vicoli e una delle rare occasioni nella quale fu vista sorridere in pubblico l’austera regina Maria Teresa D’Austria fu quando assaggiò una fetta di Pastiera:

A Napule regnava Ferdinando
Ca passava e’ jurnate zompettiando;
Mentr’ invece a’ mugliera, ‘Onna Teresa,
Steva sempe arraggiata. A’ faccia appesa
O’ musso luongo, nun redeva maje,
Comm’avess passate tanta guaje.
Nù bellu juorno Amelia, a’ cammeriera
Le dicette: “Maestà, chest’è a’ Pastiera.
Piace e’ femmene, all’uommene e e’creature:
Uova, ricotta, grano, e acqua re ciure,
‘Mpastata insieme o’ zucchero e a’ farina
A può purtà nnanz o’Rre: e pur’ a Rigina”.
Maria Teresa facett a’ faccia brutta:
Mastecanno, riceva: “E’ o’Paraviso!”
E le scappava pure o’ pizz’a riso.
Allora o’ Rre dicette: “E che marina!
Pe fa ridere a tte, ce vò a Pastiera?
Moglie mia, vien’accà, damme n’abbraccio!
Chistu dolce te piace? E mò c’o saccio
Ordino al cuoco che, a partir d’adesso,
Stà Pastiera la faccia un pò più spesso.
Nun solo a Pasca, che altrimenti è un danno;
pe te fà ridere adda passà n’at’ anno!”

Ci regala questa poesiola in rima Luciano Pignataro e sua è anche la ricetta della pastiera:

Ingredienti
Per la pasta frolla:
3 uova intere
500 g di farina
200 g di zucchero
200 g di strutto
per il ripieno:
700 g di ricotta di capra- gr. 600 di zucchero
400 g di grano cotto
80 g di cedro candito-gr. 80 di arancia candita
50 g di zucca candita (si chiama cucuzzata) oppure altri canditi misti
un pizzico di cannella
100 g di latte
30 g di burro o strutto
7 uova intere
1 bustina di vaniglia
1 cucchiaio d’acqua di mille fiori
1 limone
Prima di tutto procuratevi del grano a chicchi, preferibilmente tenero, va bene anche quello duro. Lasciatelo in una terrina per 3 giorni e ricordatevi di cambiare l’acqua al mattino e alla sera. Poi scolatelo e sciacquatelo con acqua corrente e, quando è ben pulito, mettetelo a cuocere. per 500 gr. di grano è sufficiente una pentola con 5 litri d’acqua, a fiamma alta fino alla bollitura. Abbassate quindi la fiamma e continuate la cottura per circa un’ora e mezza senza mai girarlo. A cottura ultimata salarlo a piacere e scolarlo.
Per preparare i dolci di grano, ovviamente, il sale non va aggiunto.Questa cottura è valida per la preparazione di tutte le ricette a base di grano. Il grano cotto può essere conservato in frigorifero per una settimana circa. Al momento di utilizzarlo, per preparare la ricetta desiderata, portate l’acqua in ebollizione, immergetevi il grano e fatelo bollire per circa 5 minuti.

Preparate la pasta frolla mescolando tutti gli ingredienti , formate una palletta e lasciatela riposare. Versate in una casseruola il grano cotto, il latte, il burro e la scorza grattugiata di 1 limone; lasciate cuocere per 10 minuti mescolando spesso finchè diventi crema. Frullate a parte la ricotta, lo zucchero, 5 uova intere più 2 tuorli, una bustina di vaniglia, un cucchiaio di acqua di fiori d’arancio e un pizzico di cannella. Lavorate il tutto fino a rendere l’impasto molto sottile. Aggiungete una grattata di buccia di un limone e i canditi tagliati a dadi. Amalgamate il tutto con il grano. Prendete la pasta frolla e stendete l’impasto allo spessore di circa 1/2 cm con il mattarello  e rivestite la teglia (c.a. 30 cm. di diametro) precedentemente imburrata, ritagliate la parte  eccedente, ristendetela e ricavatene delle strisce.

Versate il composto di ricotta nella teglia, livellatelo, e decorate con strisce formando una grata che pennellerete con un tuorlo sbattuto. Infornate a 180 gradi per un’ora e mezzo finchè la pastiera non avrà preso un colore ambrato.

1200px-Pastiera_Napoletana (1)

 

‘Na cosetta cicia: la pasta alla gricia

IN CONCRUSIONE

La carne fa venì l’uricemia,
il pesce si nun puzza è congelato,
li polli cianno l’osso articolato,
e l’ova fresche so’ dell’Arbania.

Co’ li legumi viè l’aereofagia,
er maiale po’ esse ch’è appestato,
l’agnello spesso è pecora o castrato
e un fungo pô distrugge ‘na famìa.

Er fritto guasta fegheto e budella,
la roba dorce provoca er diabbete,
la frutta fa venì la cacarella.

Insomma in concrusione, er fatto è questo,
levanno li brodini de le diete,
La Pasta è er commestibile più onesto.

Aldo Fabrizi
La Pastasciutta
Arnoldo Mondadori Editore
Milano 1970

Chi ama la pasta alla Gricia si rifiuta di chiamarla semplicemente “Amatriciana in bianco” e ha ragione. La Gricia ha una sua storia, precedente a quella della più famosa amatriciana o matriciana.

Il Cantone dei Grigioni, in Svizzera, nei secoli passati non era tanto noto per le sue bellezze paesaggistiche quanto per la miseria endemica che gli abitanti erano costretti a combattere con l’emigrazione. Fin dal Medioevo dalla val Poschiavo, dalla val Bregaglia, dalla Mesolcina, dalla val Calanca e dall’Engadina famiglie intere partivano, di preferenza verso il nord Italia, per cercare un futuro migliore. Moltissimi grigionesi approdarono a Venezia e si impiegarono nelle panetterie e pasticcerie della città, rivelando un talento straordinario per “l’arte bianca”. Nel 1725, a Venezia, più di cento pasticcerie e caffè erano gestiti da grigionesi. Finché nel 1766 un trattato tra grigionesi e austriaci decise di favorire Milano a scapito di Venezia e la comunità elvetica della città si disperse nelle varie parti d’Italia e d’Europa. Il Johann Jacobs Museum di Zurigo ha dedicato a questa attività una mostra: “Finora si ha notizia di 9917 pasticceri grigionesi in 1054 località europee, ma non si tratta di un dato definitivo poiché le ricerche sono tutt’altro che concluse” spiega Yvonne Höfliger, curatrice dell’esposizione. “Certo è che raccogliendo i materiali per questa mostra abbiamo avuto quasi l’impressione che non ci sia una famiglia nei Grigioni che non abbia degli antenati pasticceri.”

Die_Belegschaft_der_Toulouser_Patisserie_Heinz__spaeter_

Quando arrivarono a Roma, all’incirca nel ‘400, nonostante la loro indiscussa maestria nella panificazione, non furono molto amati: troppo attenti ai quattrini che spendevano, trascurati nel vestire, poco espansivi, finirono per rappresentare l’immagine del burino e “gricio” divenne sinonimo di trascuratezza, rozzezza e parsimonia. “Gricio” da Grigione quindi ma anche da “griscium”, lo spolverino bianco che tradizionalmente i panettieri e i pasticceri indossavano. Sempre in bottega, la loro vita era fatta di lavoro e di frugali pasti, cucinati nel fornello a carbone che ogni panetteria possedeva. Il più famoso divenne una pasta condita con un semplice sugo a base di guanciale, pepe e formaggio pecorino grattato. La “pasta alla Griscia” o “Gricia”.

images (1)

L’altra versione dell’origine del nome della pasta alla Gricia è meno “storica”: esiste un paese, Grisciano, vicino ad Amatrice, patria di quell’amatriciana che così tanto somiglia a una gricia con l’aggiunta di pomodoro.

La ricetta è questa:

200 gr. di guanciale, tagliato a pezzetti

Rigatoni o spaghetti o bucatini

olio, pepe

pecorino grattato

Il guanciale deve rosolare in poco olio per diventare croccante e non molle. Quando la pasta è cotta si cola nella padella, si aggiunge pecorino e un po’ d’acqua di cottura; si fa cuocere ancora due minuti, mescolando delicatamente che tutti gli ingredienti si amalgamino per bene. Alla fine arriva il pepe nero. Tutto qui, nulla di complicato ma attenti a non farla diventare troppo secca. La gricia deve essere cremosa.

SPAGHETTINI ALLA SCAPOLA

Tu moje, doppo er solito trasloco,
se gode co’ li pupi sole e bagni,
e tu, rimasto solo, che te magni,
si nun sei bono manco a accenne er foco?

Un pasto in una bettola, a dì poco,
te costa un occhio appena che scastagni;
si te cucini invece ce guadagni
e te diverti come fusse un gioco.

Mo te consijo ‘na cosetta cicia
ma bona, pepe e cacio solamente,
che cor guanciale poi se chiama Gricia.

E m’hai da crede, dentro a quattro mura
magnà in mutanne…senza un fiato…gnente…
se gode più de’ la villeggiatura.

(Aldo Fabrizi)

spaghetti_alla_gricia

(foto da Noi semo romani)


Gli strangozzi, la pasta della ribellione

Nun pòi crede che ppranzo che ccià ffatto  
Quel’accidente de Padron Cammillo.  
Un pranzo, ch’è impossibbile de díllo:  
Ma un pranzo, un pranzo da restacce matto.  
Quello perantro c’ha mmesso er ziggillo  
A ttutto er rimanente de lo ssciatto,  
È stato, guarda a mmé, ttanto de piatto  
De strozzapreti cotti cor zughillo.  
Ma a pproposito cqui de strozzapreti:  
Io nun pozzo capí ppe cche rraggione  
S’abbi da cche strozzino li preti:  
Quanno oggni prete è un sscioto de cristiano  
Da iggnottisse magara in un boccone  
Er zor Pavolo Bbionni sano sano. 

(G.G. Belli, La Scampaggnata) 

spoleto

Dopo che il Barbarossa incendiò Spoleto, nel 1155, la città risorse per mano di Papa Innocenzo III il quale mise le basi per il saldo dominio della Chiesa su tutto il territorio che era stato Ducato Longobardo dal 570 al 1230. Papa Gregorio IX fu il primo dei Vicari di Cristo a stabilire la sua residenza nella città, nel 1230. Il territorio entrò in uno stato di letargo culturale ed economico, interrotto solo dai tentativi di ribellione dei movimenti anti-clericali, moti sedati dalla Chiesa con prontezza.  Le guerre tra Guelfi e Ghibellini che coinvolsero Spoleto dettero un altro duro colpo ai tentativi di sviluppo della città.

Nel 1531 lo Stato Pontificio pensò di rimpinguare le casse imponendo, su tutto il territorio controllato, una tassa sul sale. Il malcontento popolare andò alle stelle. Tentarono di approfittarne i Baglioni, ultima famiglia della cerchia delle signorie, cavalcando lo scontento nel tentativo di rovesciare il dominio papale.

sale

Perugia sognò di riacquistare l’autonomia perduta e tentò la ribellione. La risposta del Vaticano fu immediata e sanguinosa: il primo aprile del 1540, nel territorio perugino furono avvistate milizie pontificie condotte da Pier Luigi Farnese, Gonfaloniere della Chiesa, figlio di Paolo III, descritto nella storia come persona dissoluta e violenta. La sua fanteria era agli ordini del mastro generale di campo Alessandro da Terni. L’esercito pontificio mobilitato dal Farnese (8000 italiani e 400 Lanzichenecchi), iniziò a devastare il territorio di Foligno, Assisi e Bastia, incontrando scarsa resistenza. I rivoltosi erano pochi e male armati, mentre le milizie pontificie erano formate dai migliori capitani di ventura. Perugia fu assediata e molti abitanti fuggirono, stabilendosi a Firenze, Siena ed Urbino. Fu una vittoria eclatante della Chiesa che alla fine della guerra fece costruire la Rocca Paolina, simbolo del totale controllo sul territorio.

Gli Umbri, il popolo, reagi’ bandendo il sale dalle proprie tavole e inventando gli Strangozzi. Spoleto ne divenne la capitale indiscussa. Gli strangozzi presero il nome dalle stringhe di cuoio delle scarpe, usate come unica arma di ribellione dalla popolazione nei confronti dello strapotere clericale: gruppi di ribelli si appostavano in luoghi particolarmente solitari ed assaltavano il prete di turno che avesse avuto la brutta idea di addentrarcisi, strangolandolo con i lacci delle scarpe. Da qui prese il nome la pasta fresca più famosa di Spoleto.

strangozzi

Una pasta “povera”, senza uova, diventate nel regime di austerità al quale il Vaticano aveva sottoposto la popolazione, merce rara di scambio, spesso “sequestrata” dai preti della zona e senza sale. Solo acqua e farina, una specie di fettuccine spesse e a volte arrotolate una ad una su un ferro apposito.

Gli strangozzi alla spoletina sono conditi tradizionalmente con un semplice sugo di pomodoro, aggiungendo peperoncino e una spolverata di pecorino grattato.

Arrivato il benessere i condimenti sono diventati “ricchi”: salsiccia, asparagi selvatici, funghi porcini, tartufo, una delle ricchezze dell’Umbria.

Alla spoletina:

Per la pasta da : Preziosità italiane

125 grammi di farina 00

125 grammi di semola di grano duro rimacinata

125 millilitri di acqua

5 cucchiai di olio

Il sugo:

Pomodori pelati maturi 600

Olio extravergine d’oliva

Peperoncino

Aglio 2 spicchi

Prezzemolo

In una terrina, versate la farina, la semola e aggiungete l’acqua e l’olio, amalgamate il tutto fino a che gli ingredienti non si siano uniti per bene.

Ponete l’impasto, ottenuto, su una spianatoia e continuare ad impastare fino ad ottenere un impasto compatto e omogeneo.

Formate un panetto, avvolgetelo nella pellicola trasparente e lasciatelo riposare per circa 20 minuti, passato il tempo, stendete con l’aiuto di un mattarello, fino ad ottenere una sfoglia spessa di circa due centimetri, spolveratela di farina e avvolgete su se stessa, tagliate delle striscioline di circa mezzo centimetro di larghezza. Aprite con le dita tra le striscioline di pasta, per srotolarle e infarinatele per evitare che si attacchino. Il risultato finale sono degli spaghettoni spessi e lunghi.

Tagliate in quarti i pomodori, rosolate due spicchi d’aglio nell’olio con il peperoncino. Appena imbiondito togliere l’aglio e aggiungere i pomodori. Quando il sugo ha raggiunto una certa consistenza e la pasta è cotta, saltarla nel sugo e cospargere di prezzemolo. Spolverare di parmigiano e pecorino.

Un detto spoletino avverte che gli strangozzi devono essere impastati “a culu mossu”, muovendo cioè i fianchi e non solo le mani. Vedete voi, comunque sia sarà un successo.

 

Assewwi amazigh, la cucina berbera

Nnan-as i Fer3un : “Amek i tughaledh d Rebbi?”
Yenna-yasen : “Ar tura, yiwen ur yidiqerre3”
Gli hanno chiesto : “Come sei diventato faraone?”
Ha risposto : “Finora nulla me l’ha impedito” (Proverbio berbero)

Berbero, da barbaro, è il nome che i Greci e dopo di loro i Romani, utilizzarono per definire una popolazione che occupava un territorio enorme, dalle Isole Canarie all’antico Egitto. Il fatto di chiamarli “barbari” forse derivava anche dal disappunto di non essere riusciti mai a sottometterli totalmente. Secondo gli storici medievali i Berberi si suddividono in due gruppi: Botr e Barnès, con un comune antenato, Amazigh. I gruppi principali Amazigh (questo è il nome con il quale si definiscono) sono: Sanhadja, Houaras, Zénète, Masmouda, Kutama, Awarba, Berghuata, Zuauas ed ognuna di queste tribù si suddivide poi in altre, indipendenti le une dalle altre a seconda della loro dislocazione territoriale.

Sposa berbera

Una parte dei Berberi che praticavano dall’antichità il culto egizio di Ammon, accettarono di convertirsi all’ebraismo e al cristianesimo, quando fedeli delle due religioni si istallarono nel loro territorio. Poi arrivarono gli arabi che iniziarono la loro conquista, nel 647, da Bizerte, in Tunisia. I Berberi resistettero più che poterono all’invasione territoriale e religiosa, poi si arresero ai vincitori, senza però smettere mai di tentare insurrezioni. Sorsero diverse dinastie berbere musulmane in quella che fu chiamata “l’Età d’Oro”:  Ziride, Ifren, Maghraua, Almoravide, Hammadidi, Almohadi, Mérinidi, Abdalwadidi, Wattassidi, Meknassa, Hafsidi.

 


La cucina berbera, assewi amazigh, dal verbo sseww, cucinare, è rimasta abbastanza “misteriosa” nei secoli e probabilmente per questo, per questa sua mancanza di “contaminazioni” è ancora praticata quasi come lo era nei tempi ancestrali. Le comunità, nonostante le ripetute incursioni nemiche o forse proprio a causa di queste, sono sopravvissute chiudendosi al loro interno. Quando nel Medio Evo arrivarono tè e zucchero la novità fu talmente sensazionale che si creò un vero e proprio rituale nei confronti di quella bevanda che divenne poi nazionale e tè e zucchero erano utilizzati come moneta di scambio.

Visto l’enorme territorio occupato dalla popolazione Berbera non è facile distinguere i piatti considerati “tipici”. Per gli Zayane di Kenifra, nel Medio Atlas marocchino, la cucina si basa sul grano, sull’orzo, sul mais e sul latte di capre e pecore, miele, sulla carne e sulla selvaggina.

La bouchiar, una galletta fine che tra i berberi d’Algeria prende il nome di matloua mili, cotta in padella, ha la pasta morbida grazie al lungo impasto e all’aggiungere acqua poco alla volta. Si mangia coperta di miele e accompagnata da tè alla menta. Questa è la ricetta di Samar:

250 gr. di semola fine

250 gr. di farina

2 cucchiaini da caffè di lievito secco

1/2 cucchiaio di zucchero

1/2 cucchiaio d’olio

1 cucchiaino da caffè di sale

350-400 ml. d’acqua a seconda dell’assorbimento delle farine

Sciogliere il lievito in un po’ di acqua tiepida e 1/2 cucchiaino di zucchero. Coprire con una pellicola e aspettare che si formi la schiuma. In un recipiente versare la semola, la farina, lo zucchero e il sale e mescolare. Aggiungere lievito e olio. Aggiungere l’acqua tiepida, poca per volta, e impastare sbattendo l’impasto contro le pareti del recipiente. Se sembrasse un po’ collosa non è male. Alla fine dovrà risultare un impasto leggero, morbido e molle. Mettere a lievitare la pasta coperta da una pellicola e da un panno, nel forno spento ma con la luce accesa, finchè non raddoppierà di volume. Scaldare una padella e con le mani leggermente oliate tirare la pasta in un cerchio. Porla nella padella e cuocere finché non appariranno delle bolle. Aspergerla d’olio e girarla dall’altro lato, finché non appare dorata. La foto è di Samar

Il montone o l’agnello cotti interi su un fuoco di braci si chiamano mechoui. La carne si prepara un giorno avanti la cottura, marinandola in aglio, cumino, sale, pepe e olio. Secondo i gusti si possono aggiungere altre spezie e peperoncino. C’è chi farcisce la carne con le sue interiora con cipolle, pepe e spezie, chiudendo poi con del filo forte. Prima della cottura si “massaggia” la carne con la sua marinata, in modo che ne sia ben impregnata e si continua a bagnare con la marinata durante tutto il tempo che cuoce sul girarrosto.

L’abbadaz è un cuscus al pesce, accompagnato da verdure fresche.

Amekfol è un cuscus alle verdure; ifelfel sezit è un’insalata molto semplice di peperoni, tipica della Kabilya ma dalle varianti infinite, consumata in tutto il Maghreb. Servono pomodori e peperoni verdi in numero uguale; due peperoncini e olio. Per spellare facilmente i pomodori copriteli di acqua bollente, la pelle verrà via facilmente. Grigliare in un po’ d’olio peperoni e peperoncini. Tagliare grossolanamente i pomodori spellati, spellare peperoni e peperoncini e tagliarli in piccoli pezzi. Il risultato deve essere verdura tritata ma non sfatta, quindi niente mixer. Condire con olio e qualche foglia di menta. È buona calda e fredda.

Anche il cuscus, piatto-simbolo del Maghreb, ha origine Berbera. In Kabilya il cuscus di primavera deve contenere almeno sette verdure verdi che ricordino l’arrivo della primavera, uova sode e alcune radici di Aderyis, una pianta utilizzata anche per pescare le anguille: i bulbi della pianta, pestati, sono dispersi su una superficie d’acqua, in un fiume pescoso. In pochi minuti i bulbi addormentano le anguille che risalgono allora in superficie e possono essere facilmente catturate. Per il cuscus di primavera servono grani di semola, ceci, carote, patate, finocchi e cipolle. Una volta cotto il cuscus è cosparso di zucchero e decorato con uova sode.

Per festeggiare matrimoni e nascite si serve la zuppa di fave:

1 kg. di fave fresche

3 grosse cipolle

3 zucchine

4 spicchi d’aglio

1 piccolo cavolo

coriandolo fresco

 

Far rivenire nell’olio le cipolle tagliate fini. Quando sono imbiondite, coprirle d’acqua e aggiungere sale, pepe e coriandolo. Aggiungere le fave sgusciate, le zucchine tagliate a rondelle e il cavolo affettato finemente. La zuppa si può servire con la verdura a pezzi o mixata, accompagnata da crostoni di pane agliato.

 

Un’altra zuppa popolare è quella chiamata “di prezzemolo”: servono mezzo Kg. di patate, prezzemolo, un mazzetto di erbe odorose (bouquet garni), 1 lattuga, olio, sale e pepe.

Mettere a bollire un lt. e mezzo di acqua con un cucchiaio di sale. Sbucciate e tagliate a piccoli pezzi le patate, aggiungendole all’acqua. Quando le patate sono cotte aggiungere la lattuga, il prezzemolo e le erbe. Per decorare il piatto si possono aggiungere uova sode delle quali gli albumi e i tuorli siano stati tritati separatamente. Al posto delle patate si possono utilizzare zucchine e funghi.

Altro piatto tradizionale è il mesfouf n’arrif, un cuscus al burro, profumato con dell’acqua nella quale sono stati immersi fiori di lavanda pestati.

Anche i vari tipi di tadjine (in berbero ⵟⴰⵊⵉⵏ ) fanno parte della tradizione culinaria berbera: di pollo, di sardine, di agnello, di carne macinata (kefta), di verdure, accompagnati da insalate, o frutta fresca e secca e miele e cotti nei tradizionali recipienti che portano lo stesso nome del piatto.

Tikurbabine, palline di semola, cipolle, pepe, peperoncino e prezzemolo, impastate con acqua e cotte dentro una salsa a base di carne, concentrato di pomodoro, cipolle, paprika, pepe e olio.

Una cucina semplice, saporita, “rurale”, che ha dato le basi per moltissimi piatti della tradizione maghrebina.

Anda nwiγ tafat, ay ufiγ lehwa tekkat.

Aspettavo la luce, ho trovato la pioggia battente (proverbio berbero)

Le Pentole e i testi è ora ebook!

Le Pentole e i testi è ora ebook! I migliori articoli del blog sono diventati un libro. Le diverse categorie sono distinte e la cucina italiana ha uno spazio particolare. Comprarlo è semplice ed economico e leggerlo, ci auguriamo,  divertente. Non perdetevelo! Per ordinarlo: http://www.lulu.com/shop/mavi-citti/le-pentole-e-i-testi-a-spasso-con-i-sapori/ebook/product-23515278.html

old kitchen at a farm