Il paese dei ciarlatani e del tartufo nero

“I ciarlatani son coloro che per le piazze spacciano unguenti, o altre medicine, cavano i denti o fanno giochi di mano che oggi più comunemente dicesi Ciarlatani, … da Cerreto, paese dell’Umbria da cui soleva in antico venir siffatta gente, la quale con varie finzioni andava facendo denaro”.

Così, nel 1612, il vocabolario della Crusca definiva l’attività del frodare il prossimo a scopo di lucro. I termini ciarlare, il chiacchierare in modo vano e cerretano, abitante di Cerreto di Spoleto, divenne ciarlatano, termine usato in tutta Europa per indicare imbonitori, falsi profeti, spacciatori di rimedi miracolosi quanto inutili. E i cerretani affinarono l’arte della ciarlataneria già fin dal ‘300, a spese dei pellegrini che si recavano, allora come oggi, in visita ai santuari e ai luoghi sacri.

Cerreto di Spoleto ha una storia affascinante e burrascosa. In provincia di Perugia, a un’altitudine di 557m. s.l.m., paese di cerri, dai quali il nome e che si ritrovano anche nello stemma, fa parte della tipologia dei castelli di poggio, con una via di cresta affiancata da vie parallele. Ai piedi del castello scorre il fiume Nera, anticamente Nahar, circondato da una natura rigogliosa che i cerretani cercano di preservare con cura.

Le prime notizie storiche risalgono al 1200 ma il primo insediamento risale probabilmente al 290 a. C. quando avviene la romanizzazione del territorio ad opera delle legioni del console M. Curio Dentato. Nel V secolo San Benedetto da Norcia scende dalla val Nerina e sorgono i primi monasteri benedettini.

“Nell’alto medioevo, in epoca longobarda, si sono create nel territorio spoletino circoscrizioni dette castaldi o gastaldi, fondi rustici con amministrazione giuridica, economica e militare, gestita da funzionari del sovrano longobardo. Cerreto fece parte di quello di Ponte. Una leggenda locale, riportata da diversi storici, narra che il castello sia stato fondato nell’ottocento dai Franchi che erano scesi al seguito di Carlo Magno per contrastare il potere del potente gastaldato longobardo di Ponte. Fra il IX ed il X, i Saraceni invadono il territorio ducale di Spoleto costringendo i signori feudali ad erigere rocche e castelli.
Le prime notizie storiche sul borgo risalgono all’epoca dei Longobardi.

Data la sua posizione strategica, il castrum faceva parte dei territori governati dai duchi di Spoleto insieme al Gastaldato di Ponte. Dopo le incursioni saracene, nell’890, sulle alture della Valle del Nera sorsero torri di vedetta a guardia delle strade. Cerreto di Spoleto, insieme alla vicina Rocca di Ponte, controllava importanti nodi viari: la via che attraversa la Valle del Vigi e quella che attraversa la Valle del Tissino che, salendo a Roccatamburo e a Poggiodomo, mette in comunicazione Cerreto con Monteleone di Spoleto e con l’Altopiano di Leonessa.
Altro importante asse viario che Cerreto controlla è quello che, costeggiando il corso del Nera, procede a sud in direzione Terni e che, in direzione nord, si biforca in direzione di Norcia e di Visso.
La storia documentaria del castello inizia però nel XII secolo, quando si sottrae al gastaldato longobardo di Ponte e si erige a libero comune sotto la protezione della Chiesa, sfruttando la sua posizione strategica di confine tra i comuni di Spoleto e di Norcia e il Ducato di Camerino.
Dopo aver fatto parte del Ducato di Spoleto, governato prima da un duca di nomina imperiale e poi da un governatore di nomina pontificia, con l’ascesa al soglio pontificio di papa Innocenzo III (1198-1216), che ricondusse sotto il dominio della Chiesa i territori della Marca e del Ducato, Cerreto entrò quindi a far parte dei domini pontifici.

 

 

Anche se, nel 1232 sembra che Cerreto pagasse ancora il “fodrum” all’imperatore.
L’11 luglio 1221 i cerretani stipularono un atto di sottomissione a Spoleto per contrastare il dominio di Norcia e Ponte, ora frazione di Cerreto di Spoleto ma in passato potente castello, sotto la protezione di Norcia, spesso in lotta con Cerreto per motivi di confine e di opposte alleanze, i Signori di Ponte poi sin dall’epoca feudale avanzavano diritti sul castello dirimpettaio.
Nel 1225 i cerretani furono costretti a giurare fedeltà al cardinale Colonna, rettore del ducato di Spoleto.
Più tardi però tornarono a ribellarsi e nel 1233 furono duramente puniti da Spoleto, la pace fu ristabilita grazie alla mediazione di frate Elia nel 1234 e il castello si sottomise fino al 1240, quando si staccò nuovamente da Spoleto per seguire la fazione ghibellina.
Nel 1241 Federico II lo restituì di nuovo al ducato a cui fu riconfermato dal cardinale Capocci nel 1247, quando il papa, dopo aver scomunicato Federico II nel 1245, in seguito alla sconfitta da questi riportata nel 1248 a Pavia, rientrò in possesso dei ribelli comuni ghibellini che si trovavano nei suoi possedimenti.
Dal 1268, dopo alterne vicende, fu posta sotto il vicariato dei Varano, duchi di Camerino, come premio della fedeltà della potente famiglia alla Chiesa.
Anche Norcia cercò ripetutamente di imporre la propria supremazia su Cerreto cercando subdolamente di istigare il castello alla ribellione nei confronti di Spoleto e successivi episodi di ribellione si ripeterono anche nel 1279 e soprattutto nel 1320 quando il castello si dette a Perugia e gli spoletini non riuscirono a riconquistarlo.
La storia di Cerreto è legata alla lunga contesa tra i comuni di Spoleto e Norcia, che a turno nominavano un podestà da loro scelto, nonché alle lotte tra guelfi e ghibellini che caratterizzarono il periodo medievale fino all’avvento del cardinale Egidio Albornoz e delle sue costituzioni egidiane, con cui vennero riorganizzati in modo centralizzato i territori dello Stato della Chiesa.
Nonostante ciò Cerreto aveva sempre mantenuto una certa autonomia e, dopo il XIII secolo, accrebbe notevolmente la sua forza mantenendosi quasi sempre indipendente, pur continuando ad essere oggetto di dispute fra Norcia e Spoleto.

 

Ciò gli consentì di estendere notevolmente il proprio territorio ed il suo dominio sui vicini castelli entrando a far parte del distretto di Spoleto solo saltuariamente.
Lo statuto più antico di Cerreto, ora andato perduto, ma descritto dal Fabbi nel volume dedicato alla storia dei comuni della Valnerina, risale al 1380… Nel 1425 fu ceduta da papa Martino V a Norcia, ma, per riprendere la sua autonomia e per difendersi dagli attacchi dei nursini, si pose sotto la protezione di Francesco Sforza, prima capitano di ventura al servizio di Filippo Maria Visconti, signore di Milano, poi eletto gonfaloniere della Chiesa dal papa. Così nel 1434, dopo che lo Sforza ebbe occupato Camerino e dopo la morte dell’ultimo Varano, Cerreto firmò l’atto di sudditanza al condottiero milanese, che occupò la comunità nella primavera del 1436.

Nel 1438 i nursini, approfittando di un calo dell’egemonia territoriale di Spoleto impegnato in lotte interne, tentarono nuovamente di impadronirsene, ma poi il castello tornò sotto il dominio dalla città ducale. Per liberarsi da Spoleto, nel 1442, insieme con Ponte, si dette a nuovamente a Francesco Sforza, ma Nicolò Piccinino riportò il territorio sotto la giurisdizione della chiesa e nel 1443 tornò sotto Spoleto per desiderio di papa Eugenio IV.
Le continue lotte fra Spoleto e Norcia finirono per dividere Cerreto in due fazioni.
Solo nel 1446 Spoleto ebbe nuovamente la vittoria; furono ricostruite le mura, riacquistata Rocchetta, che era rimasta sotto il dominio di Norcia e fu riorganizzata l’amministrazione locale.
Protagonisti di queste epoche di fame, guerre, epidemie furono i celebri vagabondi cerretani, meglio noti con il termine di “Ciarlatani“, affabulatori e imbroglioni, celebri per la loro spiccata facondia e capacità di persuadere.
Molti si erano specializzati nella questua in favore di istituzioni ospedaliere e di assistenza.
A partire dal secolo XV l’originaria attività di questua è spesso degenerata in comportamenti che poco avevano a che fare con l’attività benefica sfociando nella vendita delle indulgenze, a fine di lucro, e nell’esorcismo contro la peste e le malattie.
Di essi monsignor Teseo Pini, sul finire del ‘400, scriveva che avevano appreso la falsità, l’arte del raggiro, la furbizia e la destrezza della lingua dal diavolo “loro padre e maestro“.
I cerretani nel Medioevo godevano di una notevole floridezza economica e, si cita sempre monsignor Teseo Pini “divennero famosi per gli appalti che essi prendevano con opere pie ed ospedali, per i quali gestivano le questue, con abile astuzia e simulazioni, sì da far assimilare l’epiteto di cerretano con quello di ciarlatano e imbroglione“…”

I cerretani hanno saputo sfruttare anche questa cattiva nomea: ogni anno in paese si tiene il Festival del Ciarlatano con spettacoli di piazza, vendita di erbe officinali, passeggiate lungo il fiume Nera e buona cucina.

Ad esempio i piatti a base di tartufo nero, abbondante nella zona. Il metodo antico di ricerca dei tartufi impiegava le scrofe che, tenute al guinzaglio, riuscivano ad annusare un tartufo anche a tre metri di profondità “attratte dalla somiglianza tra il profumo del tubero e l’odore degli ormoni sessuali secreti dal verro, il maiale maschio, sarchiavano voraci il terreno e scovavano tartufi a ripetizione…I ciarlatani preparavano elisir d’amore all’essenza del tartufo nero che poi vendevano dappertutto. ”

Tagliatelle al tartufo nero

Le tagliatelle sono fatte come tutte le loro colleghe di altre regioni: uova e farina. Il tartufo si spazzola per bene per togliere ogni residuo di terra e si grattugia o si taglia a lamelle sottilissime. Si mette in un tegamino l’aglio “in camicia”, cioè con la buccia e tutto e un pezzetto di burro. Si cuoce a fiamma bassa (bassissima) per una decina di minuti. Si toglie dal fuoco, si aggiunge un altro pezzetto di burro e il tartufo e si condiscono le tagliatelle. E non sono ciarlatanerie!

 

Grazie a:

I luoghi del silenzio http://www.iluoghidelsilenzio.it/castello-di-cerreto-di-spoleto-cerreto-di-spoleto-pg/

Umbria Touring http://www.umbriatouring.it/il-tesoro-nascosto-dellumbria/

I Bimuelos di Hanukkah: luce e miele

Morena me llaman
Blanca yo nací
De pasear galana
Mi color perdí

Vestido de verde
Y de altelí
Qu’ansi dize la novia
Con el tchelibi

Escalerica de oro
Y de marfíl
Para que suva la novia
A dar Kiddushin

Dizime galana
Si queres venir
Los velos tengo fuertes
No puedo yo venir

Morena me llaman
El hijo del rey
Si otra vez me llaman
Me voy yo con el

Hanukkah, la Festa delle Luci, la luce che vince la tenebra. La luce che sale dal buio, un giorno alla volta, ogni giorno una candela, fino a che tutta la hanukkiah, il candeliere dedicato alla festa, brilla di luce. Bet Shammai e Bet Hillel non erano d’accordo su come dovesse essere la progressione delle luci: la Scuola di Shammai sosteneva che la prima notte otto luci dovessero esser accese, per poi spegnerle gradualmente, terminando con quella dell’ultima notte; la Scuola di Hillel invece asseriva che si dovesse iniziare con una luce ed aumentarne il numero ogni notte, finendo con otto luci accese. Per Shammai la candela rappresentava il fuoco che brucia la malvagità insita nell’uomo e il fuoco per sua natura divampa con una fiammata. Hillel diceva invece che la luce era quella della conoscenza e che la conoscenza ha bisogno di tempo, di evolversi lentamente. Prevalse questa seconda interpretazione.

 

La festa di Hanukkah ricorda un miracolo legato all’olio e i cibi tradizionali sono fritti, in onore di quell’olio che non finiva di bruciare.

I piatti più conosciuti sono in genere quelli della tradizione ashkenazita: latkes, sufganiot. Ma non sono gli unici: anche se meno noti ci sono quelli della tradizione sefardita. I bumuelos, per esempio. Grecia, Turchia, Spagna, tanti nomi per lo stesso piatto:  bunuelo, bonuelo, binuelo, bimuelo, bumuelo, binmuelo, birmuelo, burmuelo o bilmuelo. Nell’Impero Ottomano un piatto simile era chiamato lokmah (ed esiste ancora); lukumades tra i greci e awami tra gli arabi.  Nell’Encyclopedia of Jewish Food, Gil Marks nota che nella Spagna medievale i cristiani consideravano i bunuelos dolci tipici della cucina musulmana ed ebraica. In molti paesi di lingua spagnola di oggi  il buñuelo è un dolce da servire a Natale.

The Stroum Center for Jewish Studies, di Washington, ci dice che “Il concetto ebraico del bumuelo si può far risalire alla storia della manna nel deserto, nei libri biblici di Esodo e Numeri. Nelle edizioni ladine della Torah, questo cibo miracoloso è descritto nel libro di Numeri (11: 8), come “torta all’olio” (leshad ha-shamen), ed in Esodo (16:31) il gusto della manna è descritto “come sapihit nel miele” (ke-sapihit “כְּצַפִּיחִת”). Sapihit è spesso tradotto in  “cialda”. Una parola simile, sapahat, indica una forma piatta o larga, e significa anche un barattolo che contiene olio – un soddisfacente collegamento letterario con la storia di Hanukkah. Il problema con la parola “sapihit” è che appare solo una volta nella Bibbia, senza altri punti di riferimento che ci aiutino a capire il contesto.

A Hebrew and Ladino edition of the Torah published in Vienna, 1813. (Courtesy of Congregation Ezra Bessaroth).

Ma nel 1547, la Torah in Ladino traduceva sapihit come “bunuelo”. Le traduzioni successive seguono l’esempio con varie ortografie alternative. In che modo questa antica parola venne tradotta come bunuelos, e sono gli stessi bumuelos che conosciamo e amiamo oggi? Per questo ci rivolgiamo ad altre fonti antiche, dove troviamo connessioni non solo ai bumuelos, ma anche alle altre prelibatezze di Hanukkah: sufganiyot (ciambelle) e levivot (latkes). Iniziando con la traduzione aramaica della Torah, il sapihit è reso come “iskeretvan”. Nella Mishna (Challah 1: 4) e nel Talmud (Pesahim 37a) questa parola viene modificata in iskaritin dove viene usata come esempio di una dei tipi di pasta esenti dall’obbligo di accantonarne una parte, come si fa con la challah. Un’altra categoria di pasta simile è la sufganin che ha una somiglianza con la parola ebraica moderna usata per i dolci di Hanukkah, sufganiyot o ciambelle e con la popolare versione marocchina nota come sfenj.

Nel X secolo, il luminare Saadia Gaon, nella sua traduzione araba della Torah, identifica il sapihit con il katayef arabo, un dolce tradizionalmente mangiato dai musulmani durante il Ramadan. Nel suo commento alla Torah, Saadia spiega il termine sapihit come levivot, cioè frittelle o pancakes.

Il padre di Maimonide, il rabbino Maimon ben Yosef, che visse nella Spagna del XII secolo e più tardi fuggì in Egitto, scrive che ad Hanukkah “è diventato consuetudine fare sufganin, conosciuti in arabo come al sfing … questa è un’usanza antica, perché sono fritti in olio, in ricordo della benedizione di Dio”.

Secondo la prima traduzione ladina della Torah stampata in caratteri ebraici e pubblicata a Istanbul nel 1547, la manna, che Dio forniva ai figli di Israele, assomigliava ai bumuelos nel miele. Gedalia Cordovero – il figlio del famoso cabalista Moshe Cordovero – pubblicò un glossario di parole non ebraiche nella Torah e le tradusse in Ladino. Nel 1588, questo Sefer Heshek Shelomo fu pubblicato per la prima volta a Venezia, e secondo l’autore anonimo, la parola sapihit è tradotta come binuelos o benuelos.

Nel 1739, le traduzioni bibliche ladine pubblicate da Abraham Asa ad Istanbul, e in seguito da altri a Izmir e Vienna, descrivono tutti il gusto di questo cibo celeste come “binmuelo kon miel”. [Costantinopoli, 1738; Vienna 1813; Izmir, 1837; Costantinopoli, 1873 e 1905.] Al contrario, Rabbi Jacob Huli, nel suo famoso commentario biblico scritto in Ladino, Sefer Me-am Lo’ez, offre un’ulteriore ortografia, affermando che la manna assomigliava ai bilmuelos. “I yamaron kaza de Yisrael a su nomre magna; io komo simiente de kolantro, blanko, i su savor komo bunuelo kon miel. “[Istanbul, 1547].

Quanti nomi e quanta storia dietro questo dolce semplice! Questa ricetta è di My jewish learning

 

2 cucchiai di olio vegetale, più quello per friggere

1 cucchiaio di lievito di birra secco

1 tazza e 1/2 di acqua calda

il succo di una grande arancia

1 cucchiaino da tè di buccia di arancia grattata

3/4 di cucchiaino da tè di sale

1 cucchiaio e mezzo di zucchero

1 tazza di miele

3 tazze e mezza di farina

 

In una grande ciotola mescolare farina, sale e 1 cucchiaio di zucchero. Mettere da parte. In un altro recipiente mettere 1/2 tazza d’acqua e scioglierci il lievito e il mezzo cucchiaio di zucchero rimasto. Aspettare qualche minuto che “schiumi”. Aggiungere la farina con il sale e lo zucchero che avevamo messo da parte, l’acqua rimasta, 3 cucchiai di succo di arancia, le scorze grattate e i due cucchiai di olio. Mescolare con le mani, aggiungendo 1 cucchiaio di farina per volta, finché si ottiene una pasta liscia. Metterlo a lievitare in una ciotola leggermente unta. Coprire con un canovaccio e aspettare che l’impasto raddoppi. Ci vorrà circa un’ora e mezza.

Scaldare l’olio da frittura in una padella, aspettate che l’olio sia caldo ma prima che arrivi al punto del fumo, altrimenti se l’olio fosse troppo caldo i bimuelos diventerebbero subito marroni senza essere ben cotti dentro.

Con le mani leggermente unte formare delle palline della grandezza di una noce. Perché siano cotte alla perfezione ci vorranno 3 o 4 minuti. Toglierle dalla padella e asciugarle su carta da cucina. Scaldare leggermente il miele con il succo di arancia rimasto. Disporre i bimuelos a piramide e colarci sopra il miele.

Savoriad i ved ke Ashem es bueno, bienaventurado el varon ke se avrega en el temed a Ashem.

Gusta e vedi quanto Hashem è buono. Felice è l’uomo che si rifugia in Lui. – Salmi 34: 9

Tibùia, la “torta grassa” degli ebrei

Siamo in provincia di Modena e precisamente a Finale Emilia. Gli ebrei ci arrivarono verso la fine del ‘500, la fatidica data che segnò la loro espulsione da Spagna e Portogallo. La prima notizia che si ha della “torta grassa” risale al 1626, quando Giacomo Bertancini fu denunciato e arrestato per “aver rubato una “torta grassa” ad un ebreo ed averla mangiata nel giorno di Quaresima”. Al 1627 risale la costruzione del Cimitero ebraico di Finale Emilia.

Eppure non sembra che la Tibùia, o Torta grassa o Sfogliata, come venne generalmente chiamata in seguito, fosse tradizione degli ebrei spagnoli. La sua introduzione a Finale sembra sia merito di una famiglia di ebrei levantini turchi, i Belgradi, quando con il termine Turchia si intendeva uno spazio geografico che andava ben oltre quello dell’attuale Stato: l’Impero Ottomano si estendeva in gran parte del Medio Oriente. E i finalesi la Turchia la conoscevano perché ci andavano a combattere come mercenari. Probabilmente la Sfogliata somigliava ai burek turchi, ma nessuno più la conosceva con altro nome che “Torta degli Ebrei”.

La Torta degli Ebrei rimase comunque per secoli conosciuta solo all’interno della comunità ebraica. Fu solo nel 1861 che Mandolino Rimini, figlio di Aronne, si innamorò di una ragazza cristiana e si mise in testa di sposarla. La famiglia lo ripudiò e lui per vendetta si convertì cristiano, prendendo il nome di  Giuseppe Maria Alfonso Alinovi e per sommo spregio verso quella comunità che lo aveva respinto, non solo divulgò la ricetta della Tibùia ma al grasso d’oca che allora era impiegato per la preparazione, essendo un ingrediente che rispettava la kasherut, mise lo strutto di maiale, proibito agli ebrei.

La Sfogliata è inserita nell’elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali della regione Emilia-Romagna. L’8 dicembre a Finale si tiene la tradizionale sagra dedicata a questa specialità. È un cibo da strada la cui popolarità non accenna a diminuire. Sfogliata dentro e croccantina fuori, ripiena di formaggio, le sono state dedicate poesie come questa di Piero Gigli, detto “Pirin dal Final” nel suo “T’arcòrdat?”, antologia di prose e poesie dialettali finalesi. Carc, 1974:

La torta d’Abrèi

Cus duvìvi far i abrèi
quand calàva zò la sìra
incadnà déntr’in dal ghètt?
Povra zént! In sinagòga,
po in cusìna avsìn al fògh,
chi studiàva la leziòn,
chi dò ciàcar da la fnèstra,
chi pianzìva in tun cantòn.
E la màma: “Vlìv la torta?”
Al papà c’al fièva i cònt:
“Sa fuss véra. Fàla grànda”.
Sùla tàvla, rosa, alvàda,
la sfuiàda la s’avrìva,
“O che udòr”, infurmaiàda,
e la fièva dasmingàr
la cadéna ach sràva al ghètt.
Cus duvìvi far i abrèi
quand calàva zò la sìra??
Tutt cuntént magnàr la torta
E po dop, sòta ai linzò,
dasmingàr d’èssar abrèi
e la vècia far di fiò.

e di Piero Gigli è anche una delle ricette, pubblicata sulla pagina del Comune di Finale

Ingredienti per 6 persone: 500 gr. di fior di farina (00); 100 gr. di strutto; 150 gr. di burro; 250 gr. di formaggio parmigiano-reggiano giovane; 15 gr. di sale; acqua.

Si impasta sul tagliere, meglio su un ripiano di marmo, la farina con l’acqua e il sale in modo da farne un pane morbido e lo si lavora per almeno mezz’ora. Formare una palla e lasciare riposare l’impasto, coperto con una terrina, per circa un’ora. Mentre la pasta riposa, amalgamare a fuoco bassissimo, o meglio a bagnomaria, 100 gr. di burro e lo strutto sino a ottenere un “unguento” semifluido. Dividere la pasta in sei pezzi; lavorare ancora il primo pezzo e tirarlo sino a una sfoglia sottilissima di forma rettangolare; ungerla con la sesta parte della manteca di burro e strutto. Ripetere l’operazione con gli altri cinque pezzi di pasta, sovrapponendo e ungendo via via le sfoglie e non dimenticando di ungere l’ultimo, in superficie.
Piegare all’interno, in tre parti, il lato lungo del “mattone” così ottenuto; fare riposare l’impasto, ricoperto, in frigorifero per circa 20 minuti. Tirare nuovamente la sfoglia sempre nello stesso senso, avendo l’avvertenza di lasciare verso l’alto la parte piegata per ultima e senza mai voltare la pasta di sotto in su, all’altezza di mezzo centimetro e alla stessa larghezza della tortiera rettangolare che si vuole usare, ma lunga il triplo. Imburrare la tortiera e foderarla con un terzo di sfoglia; cospargere con la metà del formaggio grana parmigiano-reggiano tagliato a fette sottilissime e spruzzare leggermente con poca acqua; ricoprire con la seconda sfoglia, ancora formaggio e acqua, infine posare la terza sfoglia saldando bene la pasta dei bordi. Incidere leggermente la superficie della “sfuiàda” con la punta di un coltello in modo da formare rombi o quadrati di 5 cm. di lato e fiorire con il burro rimasto (50 gr.) a fiocchetti. Far cuocere a forno caldo (200 gradi) finché la pasta non ha preso un bel colore rosato. La “sfuiàda” va mangiata caldissima.

I Ricciarelli o le babbucce del Sultano

Gherardo fu il capostipite di quella illustre famiglia, i Della Gherardesca, che così tanta importanza ebbe nella storia della Toscana. Gherardo, che visse nel X secolo, fu Signore di Volterra, di Pisa e feudatario del castello di Donoratico. Discendeva da san Walfredo, fratello dei re longobardi Astolfo e Rachis, il cui nonno era Pemmone duca del Friuli.

 

I Della Gherardesca, famiglia potentissima in Pisa, esercitò più volte il vicariato per conto della Repubblica di Pisa sui territori della Maremma Pisana a capo della fazione dei Raspanti, insieme alla consorteria degli Appiani. Ebbe il dominio di Bolgheri, Donoratico, Montescudaio, Guardistallo, Riparbella, Settimo, Castagneto, Segalari.

Di Ricciardetto della Gherardesca però non ci sono notizie certe. Sappiamo che partecipò ad una Crociata, forse nel 1300, in Terrasanta e che quando tornò nel suo castello di Volterra ebbe l’estro di far riprodurre dei dolcetti che aveva gustato colà e che gli erano tanto piaciuti. Ma il nome di Ricciardetto non figura in nessuna delle genealogie della famiglia. I ricciarelli di Siena avrebbero preso il nome da questo rampollo Della Gherardesca. Contribuì a diffondere la leggenda il commediografo e novelliere senese Parige, che in una sua novella parla appunto di un Ricciardetto Della Gherardesca e dei dolci di marzapane, fatti come le babbucce del Sultano.

 

Quello che è certo è che l’uso del marzapane a Siena risale al 1400, come ci testimonia “l’opera del sacerdote fiorentino Arlotto Mainardi (con il nome d’arte di Piovano Arlotto) il quale cosi’ decanta le qualità principali di alcune città italiane: «…a Milano si sanno fare molte mercerie ed armature, e a Firenze buoni drappi, a Bologna i salsicciotti, a Siena i marzapani e i berricuocoli». Alla fine del 1500 in una commedia cinquecentesca del fiorentino Gianmaria Cecchi il protagonista senese Nicolozzo, promette al suo servitore Trinca, «marzapani da Siena o berricuocoli» per rifocillarlo. Nel periodo rinascimentale sono numerosi i riferimenti ai banchetti allestiti in occasione di matrimoni celebri o visite politiche nei quali si segnalano i Marzapani. La lavorazione dei «Ricciarelli di Siena» avveniva nei conventi o nelle botteghe degli speziali, le farmacie di un tempo, unici luoghi nei quali potevano essere recuperate le spezie e gli aromi indispensabili per aromatizzare e conservare i cibi. A testimonianza di questa tradizione sono visibili, ancora oggi, antiche spezierie nei pressi di Piazza del Campo (il centro storico della città di Siena) che conservano soffitti affrescati con scritte in oro inneggianti ai Ricciarelli. ”

Il marzapane era sulla tavola del banchetto di nozze di Caterina Sforza. Un primo riferimento specifico al termine Ricciarello è recuperato da un lungo elenco di dolci toscani pubblicato nel «Ditirambo di S.B. in onore del Caffè e dello Zucchero» stampato a Livorno nel 1814. Qui troviamo scritto «della lupa i Ricciarelli», dove il riferimento all’origine senese à dimostrata dall’indicazione del simbolo della città, la lupa per l’appunto.

Poi nel 1891 è pubblicato il famoso  «La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene» dell’Artusi; la ricetta n. 629, dedicata alla lavorazione del prodotto in questione, reca nel titolo la denominazione «Ricciarelli di Siena».

Diventati uno dei dolci-simbolo del Natale, la loro preparazione è essenzialmente la stessa di quella che indicava l’Artusi:

Zucchero bianco fine, grammi 220.
Mandorle dolci, grammi 200.
Dette amare, grammi 20.
Chiare d’uovo, n. 2.
Odore di buccia d’arancio. 

Sbucciate le mandorle, asciugatele bene al sole o al fuoco e pestatele finissime nel mortaio con due cucchiaiate del detto zucchero, versato in diverse volte; poi uniteci il resto dello zucchero mescolando bene.
Montate le chiare in un vaso qualunque e versateci le mandorle così preparate e la buccia dell’arancio grattata.
Mescolate di nuovo con un mestolo e versate il composto sulla spianatoia sopra a un leggero strato di farina per fargliene prendere soltanto quella ben poca quantità che occorre per tirare leggermente col matterello una stiacciata morbida, grossa mezzo dito.
Allora tagliateli con la forma qui sotto segnata e ne otterrete da 16 a 18 per cuocerli nel seguente modo:
Prendete una teglia, fatele uno strato di crusca alto quanto uno scudo e copritelo tutto di cialde per posarvi su i ricciarelli e cuocerli al forno a moderato calore onde restino teneri. in mancanza del forno, che sarebbe il più opportuno, servitevi del forno da campagna.
Dopo cotti tagliate via la cialda che sopravanza agli orli di queste paste, che riescono di qualità fine.

E una ricetta di oggi, da Visit Tuscany
Prepara per prima cosa lo sciroppo con 200 grammmi di zucchero semolato e 100 millilitri di acqua: metti gli ingredienti in un pentolino e porta a bollore a fuoco basso, senza mescolare, finché il composto non ha raggiunto la densità di uno sciroppo.
Unisci allo sciroppo 200 grammi di mandorle pelate e 20 grammi di mandorle amare entrambe ben polverizzate, 1 fialetta di essenza d’arancio, 1 albume e la punta di un cucchiaino di carbonato d’ammonio per formare l’impasto, che deve rimanere consistente ma morbido, aggiungendo quanto basta di farina senza glutine.
Ricopri il tavolo da lavoro di zucchero a velo e lavora l’impasto in modo da formare un rotolo, che poi taglierai in piccoli pezzi (di circa 30 grammi l’uno). Arrotolali tra le mani come se fossero polpettine: allungali dandogli la classica forma a rombo tipica dei Ricciarelli.
Come base l’ideale sarebbe la carta-ostia, ma se non riesci a trovarla va benissimo anche adagiare i Ricciarelli sulla normale carta da forno, spolverandoli abbondantemente con lo zucchero a velo. Ora sono pronti per la cottura: se hai tempo falli riposare una notte prima di cuocerli nel forno caldo a 180° per 6-7 minuti.

Plov o Palov, il piatto uzbeko dell’amore

Ibn Sinah, così era chiamato Abū ʿAlī al-Ḥusayn ibn ʿAbd Allāh ibn Sīnā, meglio noto come Avicenna, ابن سينا‎‎,  nacque in Iran, a Afshana, nel 980. Fu medico, filosofo, matematico e fisico. I suoi Il libro della guarigione e Il canone della medicina sono opere rimaste di importanza incontrastata per più di sei secoli. E’ definito il padre della medicina moderna. Afshana è una città del distretto di Bukhara, in passato una delle città principali del mondo musulmano e famosa per una sua antica cultura precedente alla conquista arabo-islamica.

[…] dello sguardo malvagio o dell’immaginazione, proprio quando l’anima è costante, sublime, affine ai principi, allora le obbedisce la materia che è nel mondo esterno e da essa viene influenzata, e si troverà nella materia del mondo esterno ciò che si forma sempre nell’anima, e ciò accade poiché l’anima umana non è prigioniera della materia, ma al contrario la governa. (da Liber de anima sive liber sextus de naturalibus)

E una volta il figlio del Principe di Bukhara cadde malato. Non mangiava più, non dormiva più e si era ridotto in uno stato di totale debolezza. Motivo di questo suo malessere era l’amore: si era innamorato della bella figlia di un artigiano qualsiasi. Amore impossibile da coronare.  Il Principe non avrebbe voluto divulgare la faccenda perché riteneva la malattia incurabile. Ma i parenti del ragazzo lo portarono nondimeno ad Avicenna.

Il grande medico fece venire un uomo conoscitore perfetto della zona e dei suoi abitanti. Tenendo il polso del malato chiese all’uomo di nominare tutti i distretti della zona. All’udire il nome di quello della sua amata il polso del ragazzo batté più forte. Avicenna chiese allora di nominare tutte le famiglie del distretto e quando il ragazzo sentì il nome della famiglia della donna il suo polso cominciò a battere come impazzito. Avicenna quindi seppe la causa e poté prescrivere la cura: una settimana di plov osh da mangiare e la ragazza da sposare.

Così il plov divenne il piatto tradizionale dei matrimoni, ma non solo. Ci sono sessanta diverse ricette di plov nella cucina uzbeka, con varianti per ogni distretto e per ogni occasione, che siano feste o funerali e ci sono anche plov “ordinari” per tutti i giorni. Piatto conosciuto fin dall’XI° secolo, era servito nelle tavole dei ricchi frequentemente. I meno abbienti  si dovevano accontentare delle ricorrenze o limitarsi a sognarlo. Il plov per le sue caratteristiche era considerato dare forza per affrontare i lavori più duri e le battaglie. Così ci racconta Centralasia.

Ma di che cosa è fatto il plov alla sua base? Riso lungo, carote, cipolle e carne di montone, cotti in grasso di pecora e olio. Cottura lunga nel calderone chiamato kazan, sopra un fuoco di legna. Un detto uzbeko specifica “Se sei povero, mangi il plov.  Se sei ricco mangi solo il plov”.

 

Che ricetta scegliere tra le infinite varianti è un bel problema. Proviamo con quella di Mike Benayoun di “196 flavors” che al montone, carne di lunghissima cottura, sostituisce l’agnello:

1 chilo di agnello disossato nel cosciotto

2 tazze di riso basmati

2 capi d’aglio, interi

2 grosse cipolle, finemente tritate

4 grosse carote, tagliate a julienne fini

2 cucchiai di semi di cumino

2 cucchiai di semi di coriandolo

1 cucchiaio da tè di peperoncini neri, interi

1/2 tazza di zereshk (niente paura, poi spiegheremo)

2 tazze di acqua bollente o brodo vegetale

2 cucchiai di sale e due d’olio

 

Il riso lo mettete a bagno in acqua bollente, che lo copra. La testa d’aglio la “scapate” e la mettete da parte. Tostate i semi di cumino, di coriandolo e i peperoncini in una padella, finché non prendono colore. Macinateli. Scaldate l’olio a fuoco alto in una pentola e mettete l’agnello. Fatelo colorire, girandolo abbastanza spesso, ci vorranno circa 10 minuti. Togliere la carne e riservare. Nell’olio della carne aggiungete le cipolle, finché non sono dorate. Circa altri dieci minuti. Aggiungete le carote, stessa sorte delle cipolle, altri dieci minuti circa. Rimettete nella pentola la carne e mescolate con grazia. Aggiungete i semi macinati, i peperoncini e zereshk. Oh, eccoci. Zereshk è il crespino, o Berberis vulgaris. E’ una delle piante miracolose dai benefici innumerevoli.

Provate a cercare le bacche in erboristeria. Ho visto che le vendono anche on line, soprattutto quelle iraniane. Se decidete di comprare in un negozio iraniano il suo nome persiano è berberitzen.

Dunque, aggiunto zereshk tocca all’aglio. Mescolate e abbassate il fuoco. Cuocete coperto per 30 minuti. Intanto scolate e lavate il riso in acqua calda. Aggiungetelo in uno strato uniforme sopra la carne. Lentamente aggiungete l’acqua calda (o brodo), che lo copra per circa 5 cm. NON mescolate. Aggiungete il sale e regolate il fuoco che deve essere medio. Coprite e fate cuocere finché il riso diventi tenero ed abbia assorbito l’acqua , cioè circa 20 minuti. Servite guarnendo con la testa d’aglio in cima.

Yaxshi tuyadi!

La Mimuna: siate benedetti e rallegratevi!

Durante il periodo di Pesah (passare oltre, in ebraico) si ricordano i momenti fondanti della storia degli Ebrei: il “passare oltre” dell’Angelo della Morte che colpì i primogeniti egizi ma risparmiò quelli ebrei; il “passare oltre” dalla schiavitù in Egitto alla libertà nel deserto; la faticosa costruzione del divenire da massa di schiavi, un popolo. Durante Pesah chi osserva la ricorrenza non mangia cibi con lievito (hamez) perché nella fuga non ci fu tempo per aspettare che il pane lievitasse, ma anche perché il peregrinare nel deserto doveva servire a togliere il hamez interiore, a fare “pulizia” negli animi prima di prepararsi a un nuovo inizio (e da questo l’usanza delle pulizie chiamate “di Pasqua”). Non si riacquista di colpo la libertà dopo essere stati a lungo schiavi senza passare prima dal “deserto” che in quanto luogo simbolico del vuoto rappresenta il guardarsi dentro, l’interrogarsi e il fare pulizia.

 

Poi, come tutte le ricorrenze, anche Pesah che dura otto giorni finisce e con lei il divieto al lievito. La Mimuna, per gli ebrei Mizrahim, quelli originari dei Paesi del Maghreb, è la festa che segna la rottura del divieto. Che significa Mimuna? Non c’è concordanza sull’etimologia della parola: forse deriva dal ricordo del giorno della morte del padre di Maimonide, il saggio Rabbi Maimon Ben Yussef  HaDayan, venerato in Marocco; forse dal termine Emuna, fede, in ebraico; oppure dalla parola araba Mimun, fortuna, perché tempo considerato propizio per i matrimoni; oppure a Mamon, soldi, per intendere l’abbondanza dopo il tempo della “privazione” di Pesah. Di certo si sa che la Mimuna fa fiorire le tavole di tutto quanto di più buono e dolce si possa immaginare.

Durante Pesah gli ebrei Mizrahim preferiscono mangiare a casa, per essere certi di rispettare il divieto del hamez. La Mimuna però è un modo di rinsaldare i legami con i vicini musulmani e cristiani, di dire loro “Non è stato per superbia che ci siamo astenuti dalla vostra tavola. Ecco, vi apriamo la porta di casa per festeggiare insieme a voi”. E’ la festa del vicinato, delle visite, degli inviti, del miele, del cuscus dolce al burro e all’uvetta, Mi Mona, il mio dolce!

Un pesce, simbolo di fertilità; una tazza di farina che indica il ritorno all’abbondanza e al pane, insieme a delle monete, dei gioielli, delle fave e delle uova; olio, contro il malocchio; latte fresco, burro, latte cagliato, frutta secca e fresca, lattuga che simbolizza la primavera. E i dolci: di mandorle, di nocciole, di noci, annaffiati di burro e miele e accompagnati da té alla menta. E musica e canti e danze.

Mofleta è una specie di crépe, questa è una ricetta da La cuisine Juive Sepharade:

1 kg di farina

50 gr di lievito da pane

60 gr zucchero

22 gr sale

1 bicchiere d’olio (quello d’oliva è più “forte” di quello di arachide. Io sceglierei quest’ultimo)

La farina in un recipiente e la classica fontana al centro. Il lievito diluito in un bicchiere di acqua tiepida. Sale, zucchero, olio e lievito nella farina. Impastare e se ci fosse bisogno, aggiungere un po’ di acqua tiepida. La consistenza dovrebbe essere come quella del pane. Lavorare la pasta per almeno dieci minuti. Lasciarla poi lievitare da 45 minuti a 1 ora, a seconda del clima. Dividere la pasta in palline della misura di un pugno. Oliare un piano e disporre le palline a lievitare ancora 20 minuti.

Mettere dell’olio in una scodella. Ungendosi le mani e spruzzando la pasta d’olio tirarla delicatamente in forma quadrata o tonda.

 

La pasta deve risultare sottilissima. Se ci venisse qualche buco, pazienza, poco male. Ribattere il bordo inferiore verso il centro, poi quello superiore. Lo stesso con i bordi laterali e si otterrà un quadrato. Oliare la superficie del “pacchettino” ottenuto. Quando tutte le palline saranno stirate in quadrati, ripartire dal primo e, con le mani oliate, ricominciare a tirarlo. Nel frattempo, mettere a scaldare una padella con un filo d’olio e quando è caldo posare la prima mofleta. Lasciar cuocere da 5 a 7 minuti, deve diventare dorata. Girarla e cuocere allo stesso modo l’altra parte. E servirle cosparse di  burro fuso e miele. Terbehou !!!!!!  Buon appetito!

 

Blini, i “piccoli soli”

Hanno protetto nella vita pacifica
Le dolci tradizioni di una volta;
Con loro sulla grassa Maslenitsa
C’era sempre il blini russo
A.S. Pushkin

 

Maslenitza è una delle più antiche feste russe sopravvissute ai tempi. Ritrovamenti archeologici dimostrano come fosse già festeggiata nel secondo secolo e.v. E’ una festa della terra, introduce la primavera e in un paese nel quale è inverno per la maggior parte dell’anno non è un avvenimento da poco. Maslenitza significa “la settimana di burro” ma segna anche, nella forma arcaica del suo nome – Myasopusta, “senza carne”- una settimana dedicata a depurarsi dalla molta carne mangiata nell’inverno per fare fronte ai rigori della stagione.

 

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E in primavera il mondo dei vivi e quello dei morti sono più vicini che in altri periodi dell’anno: i blini erano l’offerta ai morti, sottili come sottile è la barriera che divide un mondo dall’altro. I blini sono i “piccoli soli” che precedono, invitano, auspicano l’arrivo del sole che scioglierà la neve e renderà più facile la vita.

I blini a Maslenitza sono protagonisti. Segnano il “tempo di rottura” delle regole sociali, la settimana degli eccessi alimentari, del consumo di alcool, dei travestimenti, dell’infrangersi degli schemi rigidi. Tutto si scioglie al calore dei “piccoli soli”.

 

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На весь мир не испечешь блин (na ves’ mir ne ispechyósh blin). Non si possono cuocere blini per tutto il mondo- Non si può piacere a tutti – Proverbio russo

La ricetta scelta e le informazioni  dalla pagina The School of Russian and Asian Studies:

2/3 di tazza di latte caldo

½ cucchiaino di miele
1 bustina di lievito secco
2 cucchiai di burro fuso, raffreddato
½ tazza di farina, più 2 cucchiai
1/4 di tazza di farina di grano saraceno
sale 1 pizzico
2 uova, sbattute
1 patata, tagliata a metà
olio vegetale o burro per la padella

Il latte, il miele, due cucchiai di farina e il lievito in una ciotola. Mescolare e lasciar riposare finché il lievito fa le “bolle” in superficie. Meglio in un luogo caldo o almeno tiepido e riparato da correnti. In un’altra ciotola il burro con la farina e il sale. Quando il lievito è pronto, fare un buco nel centro della farina e versarci lentamente il liquido. Mescolare bene con delicatezza. Sempre delicatamente unire le uova battute. Coprire e lasciar lievitare un’ora e mezzo. Deve raddoppiare il volume.

 

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Scaldare una padella dal fondo spesso, a fuoco medio. Prendere la patata tagliata in due, immergerla nell’olio o rivestirla di burro e con questa ungere la padella. Versare un po’ dell’impasto dei blini, come si fanno le  crêpes; devono essere fini come carta. Ci vorrà un minuto per farlo dorare da un lato. Girarlo e cuocere anche l’altro lato.

Con che cosa si mangia? A fantasia: burro, panna acida, caviale, salmone affumicato, miele, marmellata. Se sono grandi si piegano prima in due a mezzaluna e poi ancora a triangolo.

 

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Uno spicchio di luna di miele

Non dimenticare mai
come sgorga l’acqua nella banchina,
e come è elastica l’aria
(come un salvagente).

Accanto i gabbiani gridano,
e i panfili guardano nel cielo,
e le nubi volano in alto,
come uno stormo di anatre.

Possa nel tuo cuore
dibattersi vivo e tremare
come un pesce un frammento
della nostra vita a due.

Possa sentirsi il fruscio delle ostriche,
e restare in piedi un cespuglio.
E possa la passione
che affiora fino alle labbra

aiutarti a capire, senza l’aiuto di parole
come la schiuma delle onde del mare,
per arrivare alla terra,
generi alte onde.

Josif Alexandrovic Brodskij

1963

(Traduzione di Silvia Comoglio)

Re per un giorno, le gallette dei Re

Saturno per i Romani era il Dio dell’agricoltura, per i Greci Cronos, il Tempo. Il tempo come successione delle fasi della natura. Il succedersi ciclico degli avvenimenti terreni, perché questo è il solo Tempo che gli uomini sono ammessi a conoscere. Il Tempo che fa nascere, che fa crescere ma anche invecchiare, andare in rovina. Al Tempo si cerca di sfuggire, di esserne al di fuori. Ma essere o meglio immaginarsi “al di fuori dal Tempo” significherebbe anche non esistere sulla Terra, non riconoscersi e non essere riconosciuto. Cosa farne del Tempo? Cosa fare di noi nel Tempo? Ne abbiamo a iosa di consigli, di riflessioni, di pensieri e di parole che nei secoli della storia dell’Uomo hanno cercato di rispondere a queste domande. Si può convivere con il Tempo? Si può sfuggirgli? La Terra e il Cielo hanno generato Cronos, il divoratore. Cronos evirando il padre, Urano, viene alla luce e regna.

 

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I Romani per sfuggire alla furia divoratrice di Kronos/Saturno inventarono le feste conosciute come “i saturnali”, alla fine del mese di dicembre fino ai primi giorni di gennaio, durante le quali cercavano di confondere il Tempo, invertendone il corso ed i ruoli da lui attribuiti agli uomini. Durante queste feste era eletto il “re di un giorno”, tramite una fava nascosta in una porzione di dolce. Un bambino, censito essere la voce di Apollo in virtù della sua innocenza, decideva da sotto il tavolo a chi dovessero andare le porzioni. Non c’erano preclusioni di condizione sociale, quindi anche un servo poteva diventare il “re di un giorno” e togliersi magari lo sfizio di prendere a schiaffi il padrone, pagando il suo gesto con la vita il giorno dopo, quando fosse ritornato nel suo Tempo.

Poi la Chiesa, nonostante il parere contrario di luterani e calvinisti, si è impossessata della festa che è diventata la celebrazione dei Re Magi, durante l’Epifania. L’usanza prevedeva che il dolce fosse diviso in tante parti quanti erano i commensali, più una parte da riservare “alla Vergine” o “al buon Dio” ed era offerta al primo povero che passasse nei paraggi. Dal Medio Evo furono molti i personaggi famosi che si dedicarono a eleggere “re per un giorno” uno dei bambini più poveri della città, al quale davano in dono cifre che avrebbero dovuto impiegare per emanciparsi attraverso lo studio.

 

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Nemmeno la Rivoluzione francese riuscì, nonostante ci avesse provato, a proibire la fabbricazione del dolce ma una decisione della Comune, nella seduta del 31 dicembre 1791, cambiò il nome della festa: da Giorno dei Re a Giorno dei Sanculotti. L’Epifania diventò la Festa del Buon Vicinato.

Nella maggior parte della Francia la Galette des Rois è fatta di pasta sfoglia, a volte riempita di confettura, marzapane o cioccolato. Nel sud della Francia il “Dolce dei Re” o “Corona dei Re” è invece una brioche arricchita di frutta candita e la versione di pasta sfoglia è spregiativamente chiamata “alla parigina”. Il dibattito su quale delle due ricette, la brioche o la pasta sfoglia, abbia diritto ad essere indicata con il nome di Galletta dei Re interessa soprattutto il sud della Francia: la discussione su quale sia la ricetta che si può indicare come  “originale” marca così la separazione linguistica tra lingua d’oil e lingua d’oc.

Trovare la fava nel dolce” è rimasto un modo di dire comune per indicare la soluzione di un problema, il nodo della questione. Non volendo né potendo schierarci con nessuna delle due parti, sarà bene considerare entrambe le ricette. Le “fave” che si trovano oggi in questi dolci sono per lo più personaggi che rimandano alla storia dei Re Magi ma anche animali e personaggi di fantasia, come questi:

 

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La Galette des Rois di Marmiton:

 

2 confezioni di pasta sfoglia

100 gr. di mandorle in polvere

75 gr. di zucchero

1 uovo

50 gr. di burro fuso

qualche goccia di estratto di mandorle amare

1 rosso d’uovo per dorare

Scaldare il forno a 210°. In uno stampo porre la prima sfoglia e punzecchiarla con una forchetta. Mescolare in un recipiente la farina di mandorle, lo zucchero, il burro fuso, l’uovo e l’estratto di mandorle amare. Versare il composto sulla pasta sfoglia, avendo cura di lasciare il bordo libero. Coprire con la seconda sfoglia, premendo bene i bordi e con la lama di un coltello tracciare delle linee di decoro. Spennellare con il tuorlo d’uovo. Praticare dei piccoli fori nella pasta per impedire che si gonfi in cottura. Cuocere per almeno 25 minuti, a seconda del forno.

 

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Da Gustave l’altra ricetta

La Galletta dei Re di pasta brioche

500 gr di farina

150 gr di zucchero

3 uova più un tuorlo per decorare

150 ml di latte più un cucchiaio per decorare

150 gr di burro ammorbidito

125 gr di frutta candita mista (100 gr per la pasta e 25 per la decorazione)

1 arancia

1 sacchetto di lievito di birra secco

5 cucchiai di granella di zucchero

2 cucchiai di acqua di fiori d’arancio

un pizzico di sale

una “fava” o in mancanza un fagiolo bianco

 

Far ammorbidire il burro a temperatura ambiente o nel micro onde. Versate il lievito in due cucchiai di acqua tiepida (a non più di 35°) e lasciate riposare 15 minuti. Mescolate. Sbattete le uova con lo zucchero. In un recipiente, mettete la farina a fontana. Aggiungete nel centro il lievito, le uova battute con lo zucchero, l’acqua di fiori d’arancio, il sale. Impastate lentamente, aggiungendo il latte poco per volta. Quando la pasta si presenta omogenea e si stacca dai bordi del recipiente smettete di aggiungere latte. Continuate a impastare aggiungendo il burro morbido a pezzetti. Impastate fino a che la pasta abbia incorporato tutto il burro. Continuate a impastare sollevando la pasta e sbattendola con forza sul piano di lavoro, per incorporare aria. Mettete a lievitare la pasta al riparo da correnti e in un luogo tiepido. Dovrà triplicare o quadruplicare il suo volume.

Tagliate a cubetti la frutta candita, lasciando dei pezzi grossi da usare per la decorazione. Grattate la buccia dell’arancia. Aggiungete frutta tagliata e buccia grattata alla pasta che modellerete in forma di ciambella rotonda, vuota nel mezzo. Fate scivolare dentro la pasta la “fava”, più verso il bordo che verso il centro. Foderate una placca  di carta da forno. Ponete la pasta sopra e fate riposare ancora un’ora, evitando correnti d’aria, in un luogo ben tiepido.

Forno a 150°. Dorate la superficie della corona con l’uovo diluito nel cucchiaio di latte. Spolverizzate di granella di zucchero e infornate da 30 a 40 minuti, a seconda del forno. Una volta cotta, decorate con la frutta candita a pezzi.

Re, almeno per un giorno, ma questo dolce si conserva abbastanza bene anche per più giorni.

 

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Boufertouna, la minestra Harira della Buena Fortuna

Harira è harrara perché è calda (harrara=calore), harr perché è piccante, harara è il desiderio, harira perché c’è il grasso, harr perché si fa a casa, nel focolare domestico, harir perché è liscia come la seta, horr perché è il cibo degli uomini liberi, har che è l’essenza femminile, il ventre. Harira è considerata la minestra marocchina per eccellenza. Il suo nome meno conosciuto è Boufertouna, Buena Fortuna, che ci racconta degli ebrei che approdarono in Marocco fuggendo la Spagna. Piatto della buona fortuna, forse per i legumi che lo compongono? Forse perché tradizionale nei giorni di festa?

 

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Le diatribe che vorrebbero attribuire Harira a un determinato luogo e ad una determinata origine sono quanto di più inutile si possa immaginare: è marocchina, perché è il piatto nazionale; è ebrea, perché l’altra parte del suo nome lo testimonia; è algerina perché ha soppiantato la tradizionale shorba; è tunisina, è berbera, è dei ricchi, è dei poveri, è di tutti.

 

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Harira tradizionale da La cuisine marocaine

200 gr di ceci ammollati una notte

250 gr di agnello nella coscia, compreso l’osso e il suo midollo

2 cipolle affettate

150 gr di lenticchie

1 tazza da the di riso

2 litri d’acqua

1/2 bustina di zafferano

4 pomodori frullati

3 cucchiai di concentrato di pomodoro

1 mazzetto di prezzemolo e coriandolo fresco, finemente tritati

1 gambo di sedano tagliato a pezzetti

50 gr di farina

sale, pepe

Prima la carne, a fuoco medio, con le ossa e il loro midollo, le cipolle, i ceci, lo zafferano e l’acqua. Sale e pepe.

Dopo 20 minuti le lenticchie, il riso, i pomodori, il concentrato, il prezzemolo e il coriandolo e il sedano.

Altri 20 minuti, poi la farina diluita in un bicchiere d’acqua e girare per evitare i grumi. Continuare a rimestare ogni tanto, lasciando sul fuoco ancora una decina di minuti.

Ma anche ricette diverse si fregiano del titolo “tradizionale”. Per esempio quella di Hanane ci fa sapere che non è detto la carne sia quella di agnello ma che può andare benissimo anche quella di manzo. Che al posto del riso si possono usare vermicelli (come la versione che ho sempre mangiato io) da aggiungere subito prima della farina, cioè a pochi minuti dalla cottura. O, come dice Chahia tayba, che si può aggiungere del burro o smen (burro chiarificato: harira=grasso) insieme alla carne e ai legumi. O come dice Fadila, si può aggiungere un cucchiaio di ginger in polvere insieme alla carne.

Ma l’importante è che harira sia harir, liscia come seta.
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Dayenu: ci sarebbe bastato

Se dopo averci fatto uscire dall’Egitto
Tu non ci avessi sostenuto con la manna,
dayenu, dayenu Adonai,
dayenu, dayenu Adonai.
Se dopo averci sostenuti con la manna
Tu non ci avessi consegnato la tua Legge,
dayenu, dayenu Adonai,
dayenu, dayenu Adonai.
Se dopo averci consegnato la tua Legge,
Tu non ci avessi fatto entrare in Israele
dayenu, dayenu Adonai,
ci sarebbe bastato, Signore.

 

 

Dayenu, ci sarebbe bastato, canto di Pesah risale ad oltre mille anni fa. Già nell’IX secolo il canto risultava inserito nella Haggadah di Rav Amram, che fu Gaon cioè Capo dell’Accademia Talmudica di Sura, nei pressi di Babilonia. Si ringrazia HaShem (il Nome) per tutto quello che ci ha dato, più di quello che ci sarebbe bastato.

 

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Pesah è una festa ebraica, impropriamente tradotta con “Pasqua ebraica”. Il nome significa “passaggio” e ricorda il passaggio dalla schiavitù del popolo ebraico in Egitto alla libertà nel deserto. Significa anche il “passare oltre” dell’angelo della morte che risparmiò gli ebrei e colpì i primogeniti egiziani. La festa dura sette giorni, durante i quali non si mangia pane lievitato ma le mazot, un pane sottilissimo, simile a un cracker, non lievitato. Perché durante la fuga dall’Egitto e la peregrinazione nel deserto, non c’era modo né tempo di cuocere pane lievitato. Tutti i cibi a base di farina sono evitati, anche la pasta quindi, per l’effetto auto-lievitante che ha la farina a contatto con l’acqua.

 

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La prima notte di Pesah (il nuovo giorno per il calendario ebraico comincia al tramonto), a cena, si segue il seder, l’ordine, con il quale i piatti simbolici sono portati in tavola. Il piatto del seder è di solito decorato ed ha dipinti tutti i principali simboli della festa. Al centro sono poste tre Matzot per ricordare la concitata e precipitosa fuga dall’Egitto. Attorno, nell’ordine, vi sono il karpas, solitamente un gambo di sedano che ricorda la corrispondenza della festività di Pesach con la primavera e la mietitura che, in epoca antica, era essa stessa occasione di festeggiamento; le “maror” o erbe amare che rappresentano la durezza della schiavitù; una zampa arrostita di capretto chiamata zeru’a, rappresenta l’agnello pasquale che gli ebrei sacrificarono nella notte della morte dei primogeniti egiziani; un uovo sodo, beitza, in ricordo del lutto per la distruzione del Tempio; infine una sorta di marmellata preparata con mele, datteri, mandorle, prugne, noci e, spesso, vino, chiamata “Haroset” che rappresenta la malta usata dagli ebrei durante la schiavitù per la costruzione delle città di Pit’om e Ramses. Oltre ad una prima Maror, alcuni, specie nell’uso italiano, aggiungono una seconda insalata, conosciuta come lattuga.

 

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E Dayenu non può mancare. Nonostante sia di una semplicità disarmante è buono, buonissimo. Ci vuole brodo di carne dentro il quale spezzettare le mazot e lasciare bollire una mezz’ora. C’è chi aggiunge le mazot a freddo, chi a caldo. Mentre le mazot cuociono, sbattete in una zuppiera 3 uova (per due litri di brodo). Sopra queste uova si versa il brodo bollente con le mazot dentro e si spolvera di cannella macinata.

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Ci sarebbe bastato!