Shakshuka a colazione

Alice rise: E’ inutile che ci provi, non si può credere a una cosa impossibile

Rispose la Regina: A volte riuscivo a credere anche a sei cose impossibili, prima di colazione

(Alice in Wonderland) 

Per un italiano, una delle “sei cose impossibili da credere” è la shakshuka a colazione. Chi è cresciuto con l’odore del caffè che lo costringe ad alzarsi dal letto, immaginando già la delizia del caffèlatte nel quale inzuppare una fetta di torta, una brioche, tre biscotti o anche del semplice pane e burro, la shakshuka a colazione può risultare davvero troppo. Ma Borges, nel “Manoscritto di Brodie” ci dice “Gradiva le differenze: forse per questo viaggiò tanto.” e quindi perché no la shakshuka?

 

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E’ uno di quei piatti che travalicano i confini; chi la mangia parla lingue e dialetti diversi, ci aggiunge questo o quell’ingrediente, la serve nelle padelle d’acciaio o nei tajine di terracotta, ma alla base è sempre la solita, squisita shakshuka. In arabo,شكشوكة‎, significa “miscela”; in ebraico; שקשוקה, viene dal verbo leshakshek, scuotere; in berbero indica un ragù vegetale. I Tunisini dicono che è invenzione loro, ma lo dicono anche i Marocchini, i Libici, gli Egiziani, gli Algerini, gli Yemeniti. In Israele è uno dei piatti nazionali, introdotto dagli Ebrei Mizrahi della Tunisia e del Marocco. Secondo Claudia Roden, fu inventata durante l’Impero Ottomano e si spiegherebbe la sua enorme diffusione in tutto il Medio Oriente. Si mangia ovunque, soprattutto nei bar che rifocillano i viaggiatori, ma anche in quelli in città, con i tavoli all’aperto, nel sole della mattina, a godere del panorama umano e del delizioso sapore di questa colazione energetica.

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La ricetta base è questa, diciamo che ci possono mangiare quattro persone:

olio/ cipolle bionde, tritate 2/ aglio tritato… qui il discorso si fa arduo; ognuno ne mette quanto ne vuole, ma diciamo che su due cipolle io ne metterei cinque/ 1 peperone rosso o mezzo peperone rosso e mezzo giallo/ peperoncino fresco o secco, stessa storia dell’aglio. Io ce ne metterei due di quelli freschi, piccanti, o uno di quelli  secchi, grossi, piccanti/ due cucchiai di concentrato di pomodoro/ 1 kg di pomodori freschi, pelati e sminuzzati a coltello/ 1 cucchiaio paprika dolce/ 1 cucchiaio di cumino e uno di coriandolo, in polvere/ pepe nero e sale/ due uova a testa

Scalda l’olio, aggiungi la cipolla e falla cuocere finché diventa trasparente. Aggiungi i peperoni a pezzetti e il peperoncino (o i peperoncini freschi). Quando i peperoni sono morbidi, aggiungi aglio e concentrato. Dopo qualche minuto, aggiungi i pomodori freschi. Poi cumino, paprika, coriandolo, sale e pepe. C’è chi aggiunge un cucchiaino di zucchero, ma dipende dall’acidità dei pomodori. Fai cuocere una ventina di minuti, poi aggiungi le uova. Le uova ognuno le preferisce cotte quanto meglio crede, ma l’importante è che il rosso resti molle e si possa mescolare alla salsa. E tieni pronto un chilo di pane fresco, che con la shakshuka è la morte sua.

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Sempre devi avere in mente Itaca – raggiungerla sia il pensiero costante. 

Soprattutto, non affrettare il viaggio; 

fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio metta piede sull’isola,

tu, ricco dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio, senza di lei mai ti saresti messo
sulla strada: che cos’altro ti aspetti?

Kostantin Kavafis

 

Arricchirsi è glorioso: i baozi

Era uno degli slogan di Deng Xiao Ping, “arricchirsi è glorioso”, ed è diventata la parola d’ordine della Cina del dopo Mao. Arricchirsi, fare soldi, “contare”, non importa a costo di quali sacrifici. Fare soldi per i soldi, senza aspettarsi null’altro che la propria fortuna individuale. I contadini lasciano le campagne e diventano numero, forza lavoro a basso costo nelle fabbriche che hanno preso il posto delle comuni agricole, chiuse e rinnegate come ruderi del passato.

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Yu Hua ci racconta il nuovo volto della sua Cina attraverso la storia di due fratellastri, Song Gang e Li Testapelata. Il primo un bel ragazzo delicato, sognatore, colto, timido, inadatto alla nuova società che esige di farsi avanti a gomitate. Li Testapelata il suo opposto: rozzo, tozzo, incolto, lavora in una cooperativa sociale di “casi disperati”: << La fabbrica contava quindici dipendenti: oltre a Li Testapelata, c’erano due zoppi, tre ritardati, quattro ciechi e cinque sordi >> (pag. 10)

Li Testapelata è perfettamente adatto al nuovo corso del suo Paese; dove non arriva con l’astuzia supplisce con la forza. Il suo cammino è un’ascesa repentina al potere e ai soldi. In breve diventa direttore della cooperativa sociale, fino a quel momento sempre in perdita; risana il bilancio, aumenta i profitti. Quando la cooperativa fallisce per investimenti sbagliati, non si perde d’animo, diventa “stracciarolo”, fa soldi con quello che gli altri buttano via, con la spazzatura. Ha sempre nuove idee e sono sempre vincenti. Diventa “l’arcimiliardario di Liuzhen”. Song Gang invece fa il cammino inverso: troppo intellettuale, troppo etico nelle sue scelte. Solo in un campo riesce a superare il fratello con successo: la bella del paese, corteggiata disperatamente e invano da Li Testapelata, diventa sua moglie. La fabbrica dove lavora chiude e Song Gang si ammala per cercare di procurare comunque il necessario per sé e per la sua bellissima, amatissima moglie.

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Finché appare chiaro che restando dov’è non potrà mai farcela. Lascia la casa in cerca di fortuna; vende nei mercati imeni nuovi (rifarsi una verginità, anche posticcia, inutile, inefficace, metafora potente di un Paese che la sua di verginità l’ha perduta per sempre) e viagra, fino a trasformare il suo corpo, perdere la sua identità e gli ultimi residui di dignità, sottoponendosi alla cura per far aumentare il seno che cercava di vendere. Nel frattempo quella che era stata la sua luce e la sua forza, sua moglie Li Hong, diventa l’amante di Li Testapelata e con lui scopre o ri-scopre la sua natura niente affatto angelica, come l’immagine che di sé aveva dato per tutta la vita voleva suggerire. Song Gang torna a casa più povero di quando era partito, stanco e ammalato nell’anima e nel corpo per tutte le miserie nelle quali si è imbattuto e che ha vissuto sulla sua stessa persona, per scoprire ciò che ormai è di dominio pubblico: Li Testapelata ha vinto anche l’ultima posta in gioco, sua moglie. Si getterà sotto un treno, dopo aver lasciato una lettera ai suoi due unici cari, un testamento pieno d’amore, di comprensione e quasi di scuse. La sua morte segnerà anche la fine dell’ascesa al potere di Li Testapelata che si ritirerà dagli affari, perdendo ogni interesse per la sua passionale amante, la quale finirà tenutaria di bordello.

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In questa Cina amara, di famiglie disgregate e innocenza perduta, il legame tenue che resta con la tradizione è nel cibo. Gli “spaghetti semplici” che segnano una condizione nella quale ancora il successo deve arrivare e quelli “ai tre sapori” da permettersi “quando saremo ricchi”. E i baozi, la tradizione che cerca di restare se stessa, nonostante il tentativo di trasformarli in “baozi da bere”!

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I baozi sono street food da gustare mentre si è in viaggio, per esempio, senza bisogno di altro utensile che le proprie dita. E’ carne avvolta in una pasta sottile, poi cotta a vapore.

 

Char Siu Bau  (baozi ripieni di carne di maiale)

Per il ripieno

  • 2 cucchiai olio
  • 1 scalogno tritato fine
  • 1 spicchio d’aglio tritato fine
  • 250 gr. carne di maiale grigliata e tagliata a piccoli pezzetti
  • 2 cucchiai salsa di soia
  • 2 cucchiai salsa di ostriche
  • 1 cucchiaio zucchero
  • 1 cucchiaio di maizena sciolta in due cucchiai di acqua o brodo di pollo

Scaldare 2 cucchiai di olio nel wok. Soffriggere scalogno e aglio per pochi secondi. Aggiungere la carne di maiale . Lasciar soffriggere 1 minuto. Aggiungere la salsa di soia, la salsa di ostriche, e lo zucchero. Versare la maizena sciolta. Lasciar cuocere pochi minuti, ritirare dal fuoco e  lasciare raffreddare.

Per la pasta

1 bustina di lievito secco o 1 cubetto di lievito di birra
1 tazza di acqua tiepida
4 1/2 tazze di farina
Zucchero 1/4 di tazza
2 cucchiai di olio vegetale
Acqua bollente 1/2 tazza
2 cucchiai di olio di semi di sesamo

Sciogliere il lievito in acqua tiepida. Aggiungere 1 tazza di farina. Mescolare accuratamente. Coprire con un panno. Lasciate lievitare 1 ora, fino all’apparizione di bolle. Sciogliere lo zucchero e l’olio vegetale nella mezza tazza di acqua bollente. Mescolare bene. Raffreddare fino a che diventa  tiepida. Versare nel composto di lievito. Aggiungere 3 tazze e 1/2  di farina.

Impastare la pasta su un piano leggermente infarinato, fino ad avere un composto liscio. Metterlo in una grande ciotola unta, in un luogo caldo. Coprire con un panno umido. Lasciare lievitare fino a che raggiunga il doppio,  ci vorrano circa 2 ore.

Dividere in due porzioni. Impastare il primo pezzo per 2 minuti. Ripetere con il secondo. Arrotolare ogni pezzo in un serpentone, come quello che si fa per gli gnocchi. Tagliare 12 pezzi (24 totali).

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Appiattire ogni pezzetto con il palmo della mano. Stendere con il matterello in dischi. Spennellare con olio di semi di sesamo. Riempire con il ripieno. Piegare in modo che diventi un fagottino. Sigillare bene i bordi con la forchetta. Porli nel cestello della cottura a vapore. Coprire con un panno. I baozi devono raddoppiare. Ci vorranno 30 minuti circa.

 

Dayenu: ci sarebbe bastato

Se dopo averci fatto uscire dall’Egitto
Tu non ci avessi sostenuto con la manna,
dayenu, dayenu Adonai,
dayenu, dayenu Adonai.
Se dopo averci sostenuti con la manna
Tu non ci avessi consegnato la tua Legge,
dayenu, dayenu Adonai,
dayenu, dayenu Adonai.
Se dopo averci consegnato la tua Legge,
Tu non ci avessi fatto entrare in Israele
dayenu, dayenu Adonai,
ci sarebbe bastato, Signore.

 

 

Dayenu, ci sarebbe bastato, canto di Pesah risale ad oltre mille anni fa. Già nell’IX secolo il canto risultava inserito nella Haggadah di Rav Amram, che fu Gaon cioè Capo dell’Accademia Talmudica di Sura, nei pressi di Babilonia. Si ringrazia HaShem (il Nome) per tutto quello che ci ha dato, più di quello che ci sarebbe bastato.

 

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Pesah è una festa ebraica, impropriamente tradotta con “Pasqua ebraica”. Il nome significa “passaggio” e ricorda il passaggio dalla schiavitù del popolo ebraico in Egitto alla libertà nel deserto. Significa anche il “passare oltre” dell’angelo della morte che risparmiò gli ebrei e colpì i primogeniti egiziani. La festa dura sette giorni, durante i quali non si mangia pane lievitato ma le mazot, un pane sottilissimo, simile a un cracker, non lievitato. Perché durante la fuga dall’Egitto e la peregrinazione nel deserto, non c’era modo né tempo di cuocere pane lievitato. Tutti i cibi a base di farina sono evitati, anche la pasta quindi, per l’effetto auto-lievitante che ha la farina a contatto con l’acqua.

 

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La prima notte di Pesah (il nuovo giorno per il calendario ebraico comincia al tramonto), a cena, si segue il seder, l’ordine, con il quale i piatti simbolici sono portati in tavola. Il piatto del seder è di solito decorato ed ha dipinti tutti i principali simboli della festa. Al centro sono poste tre Matzot per ricordare la concitata e precipitosa fuga dall’Egitto. Attorno, nell’ordine, vi sono il karpas, solitamente un gambo di sedano che ricorda la corrispondenza della festività di Pesach con la primavera e la mietitura che, in epoca antica, era essa stessa occasione di festeggiamento; le “maror” o erbe amare che rappresentano la durezza della schiavitù; una zampa arrostita di capretto chiamata zeru’a, rappresenta l’agnello pasquale che gli ebrei sacrificarono nella notte della morte dei primogeniti egiziani; un uovo sodo, beitza, in ricordo del lutto per la distruzione del Tempio; infine una sorta di marmellata preparata con mele, datteri, mandorle, prugne, noci e, spesso, vino, chiamata “Haroset” che rappresenta la malta usata dagli ebrei durante la schiavitù per la costruzione delle città di Pit’om e Ramses. Oltre ad una prima Maror, alcuni, specie nell’uso italiano, aggiungono una seconda insalata, conosciuta come lattuga.

 

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E Dayenu non può mancare. Nonostante sia di una semplicità disarmante è buono, buonissimo. Ci vuole brodo di carne dentro il quale spezzettare le mazot e lasciare bollire una mezz’ora. C’è chi aggiunge le mazot a freddo, chi a caldo. Mentre le mazot cuociono, sbattete in una zuppiera 3 uova (per due litri di brodo). Sopra queste uova si versa il brodo bollente con le mazot dentro e si spolvera di cannella macinata.

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Ci sarebbe bastato!

Le pastel

Ditele che sono partito
Prima del tramonto del sole
Ho scelto la mia strada
prima che la bruma si levi
Me ne andro’ in esilio

 

Tableau Ferraille, del 1997, film senegalese, scritto e diretto da Moussa Sene Absa. Daam ritorna a  Tableau Ferraille, il suo villaggio natale, vicino a Dakar, dopo aver terminato brillantemente i suoi studi in Europa. Tornato, decide di entrare in politica e si scontra con tutte le magagne della corruzione e dei favoritismi. Deve inoltre fare i  conti con le sue tradizioni che credeva “annacquate” dalla permanenza all’estero. Sua moglie non resta incinta e lui, da uomo politico, non se lo può permettere. Sposa una seconda moglie, preludio alla sua rovina.

 

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Anche Gagnesiri, la moglie  virtuosa, Kinè, quella che sarebbe stato meglio non sposare, avranno mangiato pastel nei lunghi pomeriggi passati a chiaccherare con le amiche, all’ombra dei cortili chiusi delle case. E Daam le avrà mangiate da piccolo, quando gironzolava intorno alle donne di casa, preparate da sua madre o dalle vicine e da grande, in uno dei tanti chioschetti che le vendono per strada, mentre se ne andava a zonzo sulla corniche, a sbirciare le ragazze. Le pastel, il tè verde, denso come uno sciroppo, da bere sempre almeno tre volte e il bisap sono gli elementi che rendono piacevoli i pomeriggi infuocati, in attesa che il sole tramonti e al suo posto appaia quel cielo che sembra dipinto da quanto è terso e vicino, quasi che sembra di poter toccarne le miriadi di stelle.

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Quelle che ho mangiato io erano farcite di pesce:

Per la pasta:

500 gr di farina/ mezza bustina lievito per salati/ 1 cucchiaino di curcuma (facoltativo)/ mezzo cucchiaino di sale/ 1 cucchiaio olio di arachide/ 1 uovo (o due se sono piccoli)/ 190 ml d’acqua

Farina, olio, sale, lievito e curcuma in una bacinella. Impastare per ottenere un impasto sabbioso. Unire l’uovo. Aggiungere l’acqua a filo. Il risultato deve essere una palla omogenea. Chiudere nel film alimentare e mettere al fresco

Il ripieno:

2 cipolle affettate/ 5 cucchiai d’olio/ 1 cucchiaino cumino in polvere/ 1 cucchiaino paprika in polvere/ prezzemolo tritato/ 300 gr di pesce tipo merluzzo/ fumetto di pesce/ aglio

Spellare e ridurre a pezzetti il pesce. Cuocerlo con le cipolle, il prezzemolo, il fumetto di pesce e l’aglio, nell’olio.  Sale, pepe e paprika o anche peperoncino piccante a pezzi.

La salsa

1 scatola concentrato di pomodoro/ 1 pomodoro/ due cipolle/ aceto/ 1 dado/ aglio e peperoncino/ prezzemolo tritato

Far rinvenire tutti gli ingredienti in un tegame, aggiungendo un po’ d’acqua, finché ne risulti una salsa abbastanza corposa ma non proprio densa.

Stendere la pasta e ricavarne dei dischi. Riempirli di farcia, premendo bene i bordi con i rebbi di una forchetta  e friggerli

 

 

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Ecco fatto! Non solo per le ciliegie vale il detto “una tira l’altra”!

 

 

L’acqua cotta

Tutti mi dicon Maremma, Maremma…
Ma a me mi pare una Maremma amara.
L’uccello che ci va perde la penna
Io c’ho perduto una persona cara.
Sia maledetta Maremma Maremma
sia maledetta Maremma e chi l’ama.
Sempre mi trema ‘l cor quando ci vai
Perché ho paura che non torni mai.

 

Scrive il Santini nel suo “Cucina maremmana”:

« La parola maremma nasce con la emme minuscola perché sta a indicare una qualsiasi regione bassa e paludosa vicina al mare dove i tomboli, ovvero le dune, ovvero i cordoni di terra litoranea, impediscono ai corsi d’acqua di sfociare liberamente in mare provocandone il ristagno. Con il risultato di creare acquitrini, paludi. Non Maremma, allora, bensì maremma. E siccome la maremma più vasta della penisola, la più nota, la più micidiale, quella dove la malaria ha imperversato spietata per secoli interi, era la zona costiera della Toscana meridionale e del Lazio occidentale, al punto che nella storia della medicina, e anche della letteratura popolare, la malaria legò il suo nome, il teatro delle sue rabbrividenti nefandezze, a questo territorio, la maremma tosco-laziale prese la emme maiuscola. Divenne Maremma per indicare la regione abitata un tempo dagli Etruschi. Una regione così grande che Maremma passò ben presto al plurale. Si parlò di Maremme.

Scrive Rita Gherghi:

Nei primi secoli dopo il 1000 e anche prima sorsero molti castelli, alcuni dei quali, anche se sgretolati dal tempo, si vedono ancora.
Una fonte storica del 1240 ci presenta i maremmani decimati dalle razzie arabe e dalla malaria; poi sorse un nuovo flagello, cioè la dominazione senese. Da 1200 i Senesi si impadronirono di Grosseto e poco dopo di tutta la Maremma, a eccezione di Pitigliano. Così si trova scritto: “ Lo stato di decadenza della Maremma grossetano coincise con l’espansione senese e da quella dipese; le grandi tassazioni imposte per l’affitto ai coloni delle terre espropriate ed il progredire naturale della palude, determinarono un pauroso stato di abbandono “.
Come se ciò non bastasse, nel 1348 scoppiò la peste bubbonica, diffusa dai topi e dalle pulci. Fu un flagello per Siena e Firenze e soprattutto per la Maremma. Nei secoli successivi seguirono rapine, incendi e distruzioni da parte dei pirati turchi e delle compagnie di ventura.
In un tal clima di estrema povertà e disperazione fiorì il “ brigantaggio “; i briganti, nascosti nei boschi e nei forteti, assalivano e uccidevano maremmani e gente di passaggio. L’omicidio di un forestiero era solo punibile con la multa di 1000 lire. I reati restarono impuniti fino al 12 febbraio 1357 quando, il Consiglio Generale Senese deliberò la “ pena di morte “ per gli assassini.

 

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Il bene della Maremma cominciò con i Medici, da quando Cosimo I vi fece la sua prima sosta nel 1559.
Da allora Grosseto fu circondata di mura, furono elevate dighe per proteggere la città dai periodici allagamenti. Furono anche iniziati i primi lavori di bonifica scavando il fosso di Molla Vecchia e per ripopolare le località furono anche inviate squadre di bresciani, istriani e friulani, anche se molti morirono di malaria.
Gli sforzi dei Medici furono tanti, ma c’era ancora molto da fare. Verso la metà del ‘700, alla morte del Granduca Gian Gastone ultimo di casa Medici, le cronache ci dicono che il lavoro da fare era ancora copioso: l’Ombrone straripava tutti gli anni, la palude di Castiglione della Pescaia si estendeva ancora verso la città con le sue acque infette, la Maremma restava desolazione e pianto.

 

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La ripresa decisiva si compì con l’arrivo del Granduca Leopoldo II.
Egli ebbe modo di conoscere bene i problemi di questa terra visto che vi trascorreva lunghi periodi di tempo a caccia nella sua tenuta di Alberese. Pian pano concepì l’idea dell’interramento del lago di Castiglione. Diceva infatti: “ Il lago è un cadavere che bisogna seppellire per ridare vita e benessere a tutta la Maremma “. Nella sua mente nacque l’idea della bonifica e la portò avanti con ogni sforzo.
Leopoldo delegò l’ingegnere Alessandro Manetti; questo ultimo, riprendendo l’idea del matematico Pio Fantoni, progettò la deviazione del corso dell’Ombrone tramite un’opera di colmata e la costruzione del “ canale diversivo “ che doveva immettere tutta la portata dell’Ombrone nella palude di Castiglione.
Al canale progettato dal padre gesuita Leonardo Ximenes, ne furono aggiunti altri due, il S. Rocco e il S. Leopoldo che, comunicanti col mare, dovevano fare defluire le acque della palude.
Così il Granduca raggiunse per la Maremma grossetana due fondamentali obiettivi:
1)frenare la malaria
2)rendere coltivabili nuove terre.

Dopo quasi due millenni la letale malattia era vinta: due millenni per il fatto che si pensa che la malaria abbia fatto la sua prima comparsa circa 40 anni prima di Cristo.

 

Terra di malaria e d’ulivi, di miseria e di cultura, di tufo e di marmo, di santi e di diavoli.

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 Il Drago

«Siete più bianca della neve in montagna/ più rossa che del sangue d’un dragone/le vostre bellezze girano la Spagna… »

Così inizia una antica canzone del maggio rilevata sull’Amiata. Come ci si potrebbe aspettare la citazione del drago in un canto d’amore? Il drago è presente nell’immaginario collettivo di tutto il territorio maremmano, quasi protagonista incontrastato dei miti di fondazione delle comunità locali. Fra i più noti racconti mitologici in cui si narra la sconfitta di un drago per opera dell’eroe cristiano, troviamo quello di Montorgiali: San Giorgio, che l’iconografia rappresenta armato di lancia, con un rosso mantello ed elmo dorato, uccide il drago liberando il paese dall’incubo e dal ricatto. Esigeva, infatti, un tributo di ragazzi o ragazze, se non addirittura, secondo un’altra versione, la principessa del paese. Nelle narrazioni mitologiche, frequentemente vengono individuati i luoghi in cui la vicenda avrebbe avuto svolgimento. La dimora del drago sconfitto da San Giorgio sarebbe lungo il corso di un fosso, indicato come Fosso Inferno, a sottolineare l’analogia, se non una identificazione, nella rappresentazione cristianizzata del mito, dell’essere malvagio con il maligno. Lungo la via che conduce al santuario nel bosco è indicata l’impronta lasciata dal drago, mentre altrove si osserva la ginocchiata del cavallo del santo.

 

Dragone

 

C’è un elemento che ricorre nelle narrazioni intorno ai mostri draghiformi: l’acqua. Ogni volta che incontriamo un drago, lì vicino c’è, o c’era, o vi è sorta una sorgente, un ruscello, un lago. Il drago ucciso da San Guglielmo stava a guardia di una fonte, impedendone l’uso da parte della comunità; a Montorgiali una sorgente è detta “fonte del drago”.
Si narra anche di un essere che, misterioso e introvabile, abiterebbe le profondità del lago dell’Accesa. Questo specchio d’acqua, che la leggenda vuole originato dal vortice provocato dai buoi durante la trebbiatura del grano in un giorno proibito (la festa di Sant’Anna), in altre leggende nasconderebbe, immerso fra le sue acque limacciose, e perciò invisibile, un intero paese: in certe notti si udirebbe il rintocco delle campane del suo campanile. Altre narrazioni, dall’origine apparentemente più recente, ma chissà da quali profondità culturali risalgono le radici, lo vogliono popolato di un grosso e pericoloso coccodrillo, la cui origine sarebbe attribuita, in senso razionale, ad un viaggiatore per paesi esotici che si sarebbe portato “la lucertola”, in tenera età, per poi abbandonarla nelle sue acque. Di questa presenza, la cui notizia è stata diffusa anche dai giornali locali, non c’è stata conferma. Ma animali mitologici continuano a popolare la campagna maremmana. Come il puma di cui si sarebbero viste le tracce nelle colline dell’entroterra, e che avrebbe fatto razzia di pecore. O il grosso e feroce cane bianco che nelle notti senza luna sarebbe apparso nelle campagne intorno a Paganico. Non avrebbe aggredito nessuno, ma la sola sua comparsa improvvisa, nel buio delle fredde notti invernali, avrebbe messo in fuga chi lo avesse incontrato.
Nell’immaginario popolare il drago costituisce l’elemento che, sconfitto ad opera del bene, serve da tema rassicurante e fondativo della comunità degli uomini. Pare che l’opposto fondi l’opposto: non ci sarebbe il bene senza il male, il giusto senza l’errore, il positivo senza il negativo e via dicendo. Per questo il drago, con la sua connotazione, assume una grande importanza, tanto che, ad esempio, si dice che al convento della Santissima Trinità della Selva se ne conservino le ossa della testa, come una sorta di reliquia al negativo. Come a Tirli, dove si troverebbe un osso di drago dalle dimensioni spaventose.

Si narra che a Seggiano, in una notte di nevicata, un sacerdote incontrò un drago che solo l’intercessione della Vergine farà scomparire. Il tema ricorre: forse se ne possono individuare le tracce anche nelle recenti argomentazioni a proposito dei misteri di Maria di Paolo Giovanni II. In fondo molto dipende dal significato che attribuiamo alle parole: il drago nelle narrazioni popolari da sempre incorpora in sé la simbologia del male.

Eppure un tempo gli uomini e il drago devono essere stati alleati, se questo, come si racconta intorno al padule di Castiglione, sotto forma di un serpente dalle dimensioni spropositate, si accompagnava all’uomo durante i lavori: la raccolta delle cannucce, delle erbe palustri, di paglia e scarzòlo. È con l’avvento della modernità, con l’allontanamento dell’uomo dall’ambiente naturale che il drago non ha più riconosciuto il suo antico alleato. Tutto si trasforma, come direbbero gli antichi filosofi, le cose e il loro significato. E ciò che era bene, oggi è diventato il male; ciò che oggi è il bene, domani potrebbe non avere alcun valore. Che cosa rappresenta questa figura aliena e terrificante? È forse la natura ciò che l’uomo teme? Quella natura che si rifiuta di sottoporsi ad una totale sottomissione? O forse il mostro sta solo dentro ai suoi pensieri? Non deve essere stato sempre così, se, come disse il frate della Selva (in un disegno di Roberto Ferretti): «Ma se è un essere vivente è anche lui nostro fratello…».

 

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L’acqua.

Il mito narra che Saturno un giorno si adirò con gli uomini, costantemente in guerra tra loro, prese un fulmine e lo scagliò sulla terra, facendo zampillare dal cratere di un vulcano un’acqua sulfurea e tiepida che tutto avvolse e tutto acquietò. Da quel grembo accogliente gli uomini nacquero più saggi e più felici. Teatro della leggenda era il cuore della Maremma toscana, Saturnia, dove quell’acqua zampilla ancora a 800 litri al secondo ad una temperatura di 37°.

Un’altra leggenda narra che il prode paladino Orlando, dopo aver visitato la zona, dove ora sorgono le Terme di Saturnia, a quel tempo malarica e paludosa, si lavò e vide che le sue ferite guarivano.

Dopo aver conficcato la spada nella vasca termale disse “acqua che stai qui a Saturnia, vai giù in quel piano e medica le ferite”.

Il Brigante

Fra tutti i briganti che imperversavano la zona della Maremma, uno in particolare è rimasto nella storia: il brigante Saltella.

Di costui si dice che nacque a Arcidosso, uomo di grande intelligenza, molto scaltro e soprattutto agilissimo, particolarità che lo ha reso noto fino ai nostri giorni. Per sopravvivere il Saltella, si dedicava al potaggio dei castagni, mestiere che gli permise di vivere decorosamente fino ad una certa età, quando poi decise che non era il mestiere che si confaceva alle sue abilità manuali e fisiche.

Decise quindi di dedicarsi a tempo pieno ai furti, portandosi con se l’antico strumento di lavoro; un vecchio bastone di media lunghezza con la punta uncinata (che appunto gli serviva per potare i rami degli alberi). Grazie a questo arnese il brigante Saltella poteva arrampicarsi sopra gli alberi con una facilità estrema, facendo perdere le sue tracce a chiunque lo avesse inseguito, comodo no?

Anche quando i carabinieri lo pedinavano, lui di tutto punto, faceva perdere le sue tracce arrampicandosi agilmente sopra gli alberi, facendo in modo di poter coprire anche grandi distanze.

Una nota colorita in tutta questa storia è che la sua grande agilità nel arrampicarsi , era talmente nota alla popolazione che fu in grado anche di fargli cambiare cognome… infatti il suo cognome reale era “Santella”, ma tutto il popolo lo cominciò a chiamare Saltella. Ci fu un lungo periodo che il brigante fu ricercato con dosi massicce di cacce all’uomo, ma ovviamente nessuno mai riuscì a trovarlo.

Si dice che nell’ultimo periodo della sua esistenza, tale era la voglia di acciuffarlo, che prese la decisione di vivere solo ed esclusivamente sugli alberi, senza mai toccare il suolo; si nascose talmente bene che mai il suo corpo fu ritrovato e nessuno seppe mai che fine avesse realmente fatto.

la leggenda narra che il brigante Saltella non sia mai effettivamente morto e che addirittura si aggiri tutt’ora tra gli alberi della Maremma. Taluni sono soliti dire che nel periodo autunnale, quando le foglie sugli alberi sono rade, sia possibile scorgerlo con quel suo ghigno malefico e con gli occhi che luccicano come due lumini da cimitero,

Nella provincia di Grosseto, c’è chi è pronto a giurare di aver visto il brigante Saltella percorrere i sentieri boschivi adiacenti alle città.

Tutt’ora quando le persone passano davanti ad un grosso castagno con i rami grossolanamente tagliati, hanno sempre pronta un’espressione che lascia intravedere quanto ancora sia viva questa leggenda:

Qui è passato il brigante Saltella!!!

 

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E L’acqua cotta (da Un pezzo della mia Maremma)

  • 1 etto di sedano a testa, (se ci sono 10 persone sarà 1 chilo così per le altre cose)
  • 1 cipolla grande bianca a testa, se è tempo usate quelle schiacciate grandi, altrimenti quelle dorate
  • 1 etto di coste a testa, per le coste prendete le bietole quelle grandi e usate solo la parte bianca
  • carote, le carote si mettono solo per un effetto ottico, 1 se si è in pochi, 3-4 se in 10 o più
  • 1 barattolo di pelati piccolo o grande a seconda della quantità di verdure o pomodori freschi, o una buona passata
  • sale e pepe, olio extravergine
  • 1 uovo a testa

Prendete un tegame dai bordi un po’ alti, metteteci dell’olio extravergine di oliva di ottima qualità, due spicchi di aglio schiacciati, fateli imbiondire e poi toglieteli. Dopo aver lavato accuratamente le verdure, cominciate a tagliarle a tocchetti e mettetele via via nel tegame, iniziate con le verdure più dure, il sedano, e continuate molto lentamente in modo che le stesse si appassiscano, vedrete infatti che all’inizio riempiranno il tegame e quando inizieranno a perdere acqua diminuiranno di volume. Una volta finito mettete un piccolo barattolo di pelati schiacciati con la forchetta o passati, o i pomodori conservati da voi, in estate potete mettere pomodori freschi, ricoprire il tutto con acqua bollente, regolate il sale e mettete il coperchio. Un’ora di cottura a fuoco medio basso, le verdure devono essere cotte ma non spappolate…a fine cottura rompete un uovo a testa (deve rimanere intero) dentro l’acqua cotta. L’uovo si cuocerà subito e potete iniziare a fare i piatti. Se qualcuno vuole mettere del pane abbrustolito va bene, mettete un ramaiolo abbondante di verdure e sopra l’uovo.

 

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oppure da Fattoria la Maliosa

 

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2 carote (180 gr.)
1 cipolla dorata(100 gr.)
100 gr sedano
160 gr di fave sgusciate
280 gr pomodori ramati a pezzi
240 gr di spinaci freschi puliti
120 gr di piselli
4 foglie di salvia
peperoncino
1 spicchio di aglio
4 fette di pane sciapo toscano
4 uova

Lavare gli spinaci e ridurli a striscioline. Tagliare la cipolla a striscioline sottili. Tagliare il sedano a piccoli pezzi, sbucciare e ridurre a rondelle le carote. Coprire in fondo della pentola con l’olio evo.
Unire la cipolla, il sedano, le carote, il peperoncino e le foglie di salvia e mettere sul fuoco.
Quando la cipolla sarà bionda unire i pomodori precedente ridotti a pezzi e privati dei semi interni.
Unire anche i piselli e infine le fave. Salare coprire con acqua e portare la zuppa a cottura.
Al termine della cottura versare nella pentola le uova facendo attenzione a non rompere i tuorli. Far cuocere fino a che l’albume non sarà diventato bianco.
In una padella rovente tostare il pane e insaporirlo strofinandolo con lo spicchio di aglio sbucciato.
Disporre una fetta di pane sul fondo di ogni piatto. Versarvi sopra la zuppa calda e un uovo. Servire subito.

Le fricassées

Ach igol el chebêèn âl djiân

Che deve dire quello che si è sfamato a chi ha fame? (proverbio giudeo-tunisino)

 

Le fricassée, questa delizia da mangiare per strada, o a colazione, o quando si vuole, fa parte dei piatti che nel corso dei secoli hanno arricchito la cucina tunisina, come altre specialità di tutti i popoli che si sono installati in tutto il Mediterraneo. Gli ebrei in Tunisia ci sono dal II secolo e.v.

 

 

la cucina si fa e si dice con le mani” : Ces cuisines sont également toujours longues à préparer car tout y est fait à la main. La cuisine tunisienne comporte ainsi beaucoup de nettoyage d’herbes, d’épluchage de crudités et de légumes, de découpes méticuleuses et spécifiques à chaque préparation (bâtonnets, cubes plus ou moins gros…), jusqu’au hachage à deux couteaux de certaines farces ou salades, comme la slata mechouia  Salade de tomates et de poivrons grillés sur les braises…  , pour laquelle l’onctuosité et le mélange des saveurs ne s’obtiennent qu’avec cette technique archaïque.

Le fricassée, chi le chiama sandwhich, chi le chiama “salade”, chi le chiama aperitivi, sono dei meravigliosi panini ripieni che davvero vale la pena di provare.

 

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Ho scelto la ricetta di Annie Boukris 

Per la pasta: 500 gr farina/ 1 uovo/ mezzo cubetto di lievito di birra/ mezzo bicchiere di olio di semi/1 pizzico di zucchero/ un cucchiaio raso di sale

Per il ripieno: 2 peperoni rossi/2 peperoni verdi/4 pomodori/1 cipolla/ 2 peperoncini verdi freschi, piccanti/4 spicchi d’aglio/succo di limone

Questo per la mechouia, poi:

uova sode/250 gr di tonno sott’olio/olive nere/capperi/patate (facoltativo)

olio di semi per friggere

Preparazione:

Per la pasta: Sciogliere in una terrina il lievito con due cucchiai di acqua tiepida e un cucchiaio di farina. Coprire e lasciare lievitare per un’ora. In una terrina più grossa, setacciare la farina, il sale e lo zucchero. Mescolare bene. Fare un buco nel mezzo e aggiungere il lievito, l’uovo e l’olio. Lavorare la pasta a lungo, più che si può; ideale sarebbe per 15/20 minuti. La pasta deve essere molto elastica e poco appiccicosa. Dividerla in pezzi della misura di un’albicocca grossa, formare degli ovali, come piccoli pani e allinearli su un panno pulito, a lievitare ancora. Ci vorrà un’ora circa. Scaldare l’olio da frittura, friggere 5 o 6 fricassée per volta, finché non siano dorate. L’olio non lo fate scaldare troppo, altrimenti le fricassée si doreranno fuori e dentro resteranno crude. Si devono dorare dolcemente. Metterle su carta da cucina a asciugare e lasciarle freddare.

 

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Poi il ripieno:

Per ottenere la mechouia, tutte le verdure vanno fatte grigliare e poi pelate. Poi tritate a coltello, altrimenti diventano un melange molle e inutilizzabile. Unite a queste verdure il succo di limone  e il tonno. Se scegliete di aggiungere patate, dopo averle lessate, tagliatele a piccoli dadini e conditele con sale, pepe e un filo d’olio. Aprite in due le fricassée, riempitele di mechouia, aggiungete le uova tagliate a pezzi, le olive e i capperi. E poi ci si lascia andare a questa delizia e si ringrazia chi l’ha inventata!

Bissap

Bëgg-bëgg yee wuute, moo-tax njaay may jar ca jaba.

I gusti sono diversi; è per questo che tutto ciò che si vende al mercato trova un acquirente (proverbio Wolof)

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Caldo, l’estate calda di Dakar dura fino a ottobre, quando cominciano le piogge, quegli acquazzoni improvvisi e torrenziali che allagano in un attimo le strade. Giusto per riprendere fiato qualche ora, prima che il sole ritorni a brillare. Giusto il tempo perché i bambini si tuffino nelle strade, diventate improvvisamente piscine. Caldo, i piedi che percorrono i vicoli dei mercati sollevano nugoli di sabbia e polvere. E’ meglio uscire presto la mattina, quando l’aria è ancora fresca della tregua notturna e ritornare a casa verso mezzogiorno per gettarsi sotto una doccia, prima del pranzo.

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Ci vuole qualcosa che rinfreschi, che disseti, che aiuti a riacquistare i sali minerali evaporati con il sudore. E questo qualcosa non è Coca-Cola, non è Fanta: è il bissap!

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Il bissap è per il palato quello che il tchourai è per l’olfatto: indissolubilmente legato al ricordo del Senegal. Il bissap si prepara con i fiori secchi dell’ibisco, che in Senegal sono grandi come campane colorate.

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Pianta meravigliosa che non teme di attecchire e fiorire anche nei climi difficili del Sahel. D’inverno si beve caldo, come un tè, ma d’estate non c’è nulla di più dissetante e delizioso di un bicchiere di bissap freddo.

Preparazione dei fiori di ibisco per il bissap

Preparazione dei fiori di ibisco per il bissap

  • 1 tazza di fiori di ibisco secchi
  • 1 tazza di zucchero
  • 1 cucchiaino di aroma di vaniglia
  • 1 cucchiaino di aroma di fragole (o due cucchiai di acqua di fiori d’arancio)
  • un pizzico di noce moscata
  • un pizzico di cannella
  • foglie di menta
  • 1,5 l d’acqua

 

Lavare bene i fiori che spesso contengono residui di terra. Metterli in una casseruola con l’acqua e bollire per 25 minuti. Ritirare dal fuoco e aggiungere la menta. Lasciar freddare completamente. Colarlo, per separare il liquido dai fiori. Aggiungere zucchero e aromi e tenere in frigo per almeno tre ore.

 

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Waxtaan ñam la, ku ko teewe ca nga.

La conversazione è come un pranzo: chi ci si trova, vi partecipa.

Ya basbusa! Ya safra!

Una mattina, il vicolo si svegliò  nel clamore e nella commozione. I suoi abitanti avevano trovato degli uomini che issavano una grande tenda su un pezzo di terreno abbandonato, di fornte a Boxmakers Street. Allarmato, zio Kamel, aveva pensato che dovesse essere una tenda funebre, ed aveva esclamato a voce alta:
“In verità noi siamo di Dio e a Lui ritorniamo! 0 Signore, 0 Sostenitore, 0 Conoscitore di tutte le cose! ” E chiamato un ragazzo che camminava per strada gli aveva chiesto chi fosse morto. Il ragazzo, però, si mise a ridere e gli disse:” Non è per un funerale, è per un comizio elettorale! ” …

Hanno cercato di attaccare un poster sul muro del negozio dello zio Kamel, ma l’uomo, sul quale l’assenza di Abbas el-Helw aveva avuto un brutto effetto, li confronta con rabbia, dicendo: “Non qui, amici. Porterà male  e scoraggerà i clienti. ” “Al contrario”, uno dei giovani gli disse ridendo. “Porterà clienti, e se il candidato lo vede, oggi sarà lui a comprare l’intero magazzino di Basbousa…” (Vicolo del Mortaio, Naguib Mahfouz)

 

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Che la si chiami Basbusa, come al Cairo o la si chiami Safra, come fanno gli ebrei tripolini, il risultato non cambia: un dolce squisito, profumato e bello a vedersi.

 

E anche facilissimo a farsi.

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La ricetta di Labna

  • 2 uova
  • 1 bicchiere di zucchero
  • 1 bicchiere di olio di semi
  • 1 bicchiere di acqua
  • 1/2 bustina di lievito
  • 3 bicchieri di semola di grano duro

Per lo sciroppo:

  • 250 g di zucchero
  • 1 bicchiere di acqua
  • 1/2 limone spremuto
  • 3 cucchiai di acqua di fiori d’arancio

Montate lo zucchero e l’uovo fino ad ottenere una crema gialla leggera, poi aggiungete olio, acqua, farina e lievito, continuando a mescolare bene fino ad ottenere un composto uniforme. Foderate una teglia grande con la carta da forno e versate l’impasto.
Portate il forno a 180° e fate cuocere la torta un’oretta, finchè la superficie non è dorata e compatta.

Mentre la torta cuoce, mescolate in un pentolino dal fondo spesso lo zucchero, l’acqua e l’acqua di fiori d’arancio per preparare lo sciroppo: il liquido deve più o meno dimezzarsi, ma non deve diventare scuro, quindi tenete bassa la fiamma e aspettate pazientemente, mescolando di tanto in tanto. Quando fa il “perlage”, cioè la superficie si riempie di piccole bollicine, è pronto.

 

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Una volta sfornata la torta, versatevi sopra abbondante sciroppo e lasciatela riposare per 5 o 6 ore prima di mangiarla. Per servire la safra è d’obbligo per tradizione tagliare il dolce a rombi e mettere al centro di ogni rombo una mandorla.

 

Khorakhanè: la plecinta

I barval pudela çaje,
O brshm perela.
Me tut adzukarava çaje,
Mande te ave.

Aaa tuke ka merav
Aaa sona aveja (x2)

Dikava tut sar aveja,
Pe mande asaja,
Me prastava anglal tute,
Te chumide man.

Aaa tuke ka merav
Aaa sona aveja (x2)

pe ulica Sa bandjova
Tut me dzakerava,
A tu na aveja chaje,
Tuke ka merav.

Aaa tuke ka merav
Aaa sona aveja (x2)

Il vento soffiava, ragazza 

e la pioggia cadeva

ti aspettavo, ragazza, che tu venissi da me

La chiamano Zelnik, torta, io la chiamo plecinta perché cosi’ la chiamano quelli che me l’hanno insegnata. E’ uno di quei piatti che quando lo vedi fare la prima volta ti sembra impossibile da replicare. Poi invece tutto è possibile, con un pò di pratica. Si mangia con le mani, insieme, come è insieme sempre che i Rom trascorrono la loro vita.

“È colmo il calice della mia vita
È colmo d’amarezza
Goccia dopo goccia
Cola la mia anima dagli occhi del cielo
Mentre il cuore rimbalza da cielo a terra
Vuoto e straziato
Nel buio cerco un appiglio
Per non assopirmi
Nella culla dell’oblio”

( “Amarezza”, in Paula Schöpf, La mendicante dei sogni, Bolzano, Atelier grafico, 1997, p. 24. 4
Dalla poesia “Stanchezza”, in La mendicante dei sogni, p. 10.)

 

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“Noi siamo Khorakhanè Janbazi, di Macedonia, facevamo con i cavalli. Siamo arrivati dalla Germania, prima con tenda, poi cambiato sempre, ora bene qui, per pezzettino di pane.”

Khorakhanè Janbazi, me l’hanno insegnata loro.

C’è stato un tempo in cui bianco era bianco,
nero era nero, e le parole significavano solo
una cosa. Ma ora che gli anziani sono
morti … lo zingaro è perduto. (Rm Havati)

 

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Hanno messo insieme tutti gli zingari. 
Li hanno costretti nei campi. Staranno bene,
avranno tutto, ma non avrei voluto avessero fatto 
in questo modo.

Si finisce per essere come
la torre di Babele; stavano costruendola insieme e poi ad un certo punto
non potevano più capirsi.
Sono stati divisi e la torre è crollata. E’ lo stesso con il Rom, che
non si capiscono più.
(Rm Havati)

 

Dunque la plecinta.

600 g. Farina 
380 g. Di acqua
8 cucchiai olio d’oliva
2 cucchiai aceto
1 cucchiaino sale

La pasta si lavora bene, non deve essere troppo dura, anzi! Piuttosto morbida ma non appiccicosa. Si divide la pasta in palline, tutte più o meno uguali e si appiattiscono, anche con le mani, non c’è vera necessità del mattarello. Si ungono con un pò d’olio e si mettono una sull’altra. Si lasciano riposare per una mezz’ora. Passato questo tempo, si riprendono e una a una si stirano delicatamente con le mani, fino a che non siano quasi trasparenti. Se ci dovesse venire qualche buco, sarebbe meglio di no, non è una rovina. Questa operazione di “allargamento” è meglio farla su un canovaccio perché poi sarà più facile arrotolare le sfoglie, tirando a sé leggermente il canovaccio, come si fa per lo strudel, per capirci. Il risultato di ogni pallina è una sottilissima pasta:

 

 

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Si arrotola cioè ogni pallina “stirata” e si dispone a spirale, in una teglia. Dentro, come ripieno, si può mettere quasi di tutto: carne macinata, cotta con cipolle lasciate prima stufare e aggiunta di paprika piccante; spinaci e ricotta, ricotta da sola, crauti come quella nella foto, ma anche “vuota”, senza ripieno dentro è buonissima. E poi, in forno caldo, 200°, fino a che non è dorata.

 

 

Abbiamo sempre vissuto fra di noi, sempre da soli. Noi non vogliamo essere in un campo. Io preferisco stare da solo con la mia famiglia, i miei figli, i miei parenti … non con persone che non conosco bene, perché se
prima o poi una lotta dovesse accadere, non mi piacerebbe! (Romni Havati)

 

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(Grazie a Anna Rita CALABRÒ – WHEN ETHNIC IDENTITY BECOMES A PRISON: THE CASE OF THE ROMA
COMMUNITY IN ITALY

L’Inno di Garibaldi

Si scopron le tombe, si levano i morti,
I Martiri nostri, son tutti risorti,
Le spade nel pugno, gli allori alle chiome
La fiamma ed il nome, d’Italia sul cuor.
(…)
Va fuori d’Italia, va fuori che è l’ora,
Va fuori d’Italia, va fuori stranier

Clelia Gonella ci ha scritto un libro sui gusti di Garibaldi a tavola; ce ne informa il Comune di Livorno: Garibaldi sembra essere stato un buon gustaio. Sulla sua tavola non mancavano zuppe di verdure e legumi, stoccafisso, salame, formaggio, fichi secchi, anche se non disdegnava le “trenette al pesto” o le più semplici bruschette, come quella a base di pane agliato, con olio, sale e peperoncino che, ci dicono le cronache del tempo, fossero le sue preferite. E il pesce fresco. Di sicuro, quindi, non si dispiacerebbe che a Livorno un piatto povero ma buonissimo abbia preso il suo nome. E’ l’Inno di Garibaldi, per dare dignità a un piatto rosso come le camicie dei Mille che chiamato in altro modo sarebbe solo un riciclo di avanzi.

Ci sono, come spesso succede, dei punti controversi in questa ricetta: chi ci mette l’aglio, chi il rosmarino… Io la scrivo come l’ho imparata a casa e come ricordo ancora quel sapore che, senza parvenza di retorica, non ritroverò più perché se n’è andato con gli anni dell’infanzia e pazienza se ci sarà chi lo conosce diverso.

Innanzi tutto il lesso, cioè la carne rimasta dal brodo del giorno prima. Ormai parlare di carne non magrissima è quasi una bestemmia, ma per il brodo ci vuole la carne da poco, con i suoi grassi: il campanello, la punta di petto, il reale e un bell’osso di ginocchio. Poi: olio nella pentola, cipolla affettata fine, salvia e scorza di limone. La scorza di limone per me è essenziale, senza si sente che manca qualcosa di importante. Cominciare a rosolare e aggiungere la carne, tagliata a pezzi. Ancora qualche minuto e si aggiungono le patate a tocchetti. Anche queste si lasciano insaporire e poi la conserva (concentrato di pomodoro), sciolta nell’acqua, abbastanza da coprire tutto. Pepe, che non farà benissimo alla salute ma è tanto buono. La carne era già cotta prima, basta cuociano le patate, coperte, a fuoco abbastanza basso, che si comincino a sfare, addensando la salsa. E poi si mangia e se ne gioisce e non ci si chiede nemmeno se Garibaldi lo abbia mai assaggiato.